Il leader dei New Pornographers
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E’ arrivato il tempo del “difficult third album” anche per Carl Newman, ormai da più di dieci anni leader dei New Pornographers e autore sopraffino di power-pop da intenditori. Dopo aver debuttato col botto nel bellissimo The Slow Wonder e aver mantenuto sostanzialmente le stesse coordinate nel successivo (e inferiore) Get Guilty, questo terzo album sembra voler rompere con il suo passato da scanzonato autore di pop songs, nel tentativo di proporlo come cantautore “serio”, sulla scia dei grandi modelli Dylan e Young. Una mossa che potevamo prevedere, dal momento che Carl negli ultimi tre anni ha dovuto affrontare quel tipo di eventi in grado di cambiare la nostra prospettiva: la nascita di un figlio, la morte del padre e in generale “il modo in cui tutti questi eventi tristi e allegri si sono trovati a coesistere l’uno accanto all’altro”, come ha dichiarato in un'intervista.
Eppure è inutile nascondersi dietro a un dito: la profondità non è mai stato il punto forte di Newman, che nei suoi momenti migliori (diciamo tra il secondo e il terzo album dei New Pornographers) è diventato famoso per avere scritto perfette party songs, le classiche canzoni in grado di migliorare anche la giornata più cupa. Per questo Shut Down The Streets è in parte una delusione: il restyling della sua scrittura non sembra andare di pari passo con un rinnovamento degli strumenti impiegati, che restano quelli di un power-pop sempre meno power e sempre più vicino ad un concerto unplugged di un artista che invece vorremmo vedere saltellare sul palco. Siamo di fronte alla stessa tendenza messa in mostra dagli ultimi due album del supergruppo di Vancouver: un progressivo ingentilimento dei toni (che i maligni potrebbero chiamare “vecchiaia”) che però non va di pari passo con una maggiore profondità dei brani. Le silly love songs su cui uno come Paul McCartney ha costruito un’intera carriera, qui purtroppo diventano anche piuttosto noiose.
La difficoltà di riuscire a piazzare in ogni brano quel guizzo melodico che lo segnali in mezzo agli altri è evidente fin dall’inizio di questo nuovo album: I’m Not Talking è una mesta ballata per chitarra acustica e synth, che viene salvata solo dai controcanti di Neko Case, mentre appena meglio fa la successiva Do Your Own Time: entrambi i brani sembrano semplicemente rallentare e svuotare la performance di un classico brano dei New Pornographers, mantenendo la superficie da pop song senza però mai risultare veramente gioiosi o liberatori.
Molto meglio quando Newman recupera la sua verve in Encyclopedia of Classic Takedowns (anche qui con l’apporto determinante della rossa Case), oppure quando getta via il manuale dei trucchi del perfetto autore di pop song, e si lancia in territori inesplorati: You Could Get Lost Out Here e soprattutto There’s Money In New Wave lasciano intravedere due interessanti scappatoie per la scrittura di Newman, che nel primo brano ricorda gli Shins di Oh, Inverted World, mentre nel secondo riesce finalmente ad abbinare una melodia vincente al suo nuovo mood sconsolato, producendo la canzone migliore dell’intero disco.
Peccato che le cose vadano nuovamente a rotoli sul lato B: tra le rimanenti cinque canzoni solo Strings (in cui spunta l'inedita influenza di Robert Pollard dei Guided by Voices) e la conclusiva They Should Have Shut Down the Streets lasciano un segno nella memoria. Per il resto si tratta di canzoni piacevoli ma superflue (Hostages), che rapidamente si confondono l'una con l'altra in un unico medley dolceamaro, e rendono difficile non farsi distrarre da altro.
Newman è un cantautore di razza, e dispiace dover constatare che con questo album sembra aver prodotto il lavoro più debole della sua carriera. Per il futuro gli ricordiamo che non sempre maturità significa seriosità, e gli consigliamo di seguire con più coraggio l'istinto pop di cui è abbondantemente provviso, senza per forza voler dimostrare qualcosa di nuovo ai critici e al pubblico. Chissà che sappia far seguire a questo mezzo passo falso una rinascita?