Dopo dieci anni di silenzio l'ensemble canadese e' ancora un caso unico nel panorama indie. |
Dopo 10 anni di inattività riempiti da collaborazioni e progetti paralleli (Thee Silver Mt. Zion, ad esempio), tornano i Godspeed You! Black Emperor con un disco a sorpresa annunciato con soli 15 giorni di anticipo. La formazione canadese si ripresenta con nove membri (più l’addetto alle proiezioni, considerato come un componente a tutti gli effetti) e tanta voglia di riproporre il proprio credo musicale con il solito stile schivo e sprezzante verso l’odierno music business. Oltre alla totale mancanza di pubblicità per il nuovo album, infatti, la band ha già dichiarato che non terrà nessuna intervista per accompagnarne l’uscita, lasciando ovviamente molti dubbi riguardo alle interpretazioni dei pezzi e delle loro intenzioni.
Affrontare il nuovo disco di una delle più celebrate band post-rock in circolazione non è facile, dal momento che la varietà sonora messa in mostra necessita di molta attenzione. L’ascolto superficiale infatti fa sembrare banale ciò che in realtà è complesso più da un punto di vista dei suoni che nella struttura: è più difficile notare l’ingresso di uno strumento in terzo-quarto piano, per quanto bene si sposi con il brano, rispetto ad un cambio di tempo azzardato o ad una frase ad effetto. Se a questo si aggiunge il fatto che tutte le tracce, come quasi sempre nella carriera della band, sono completamente strumentali, risulta evidente che ci troviamo di fronte ad un disco difficile, che necessita di ascolti ripetuti per essere assimilato. Col passare dei minuti Allelujah rivela una serie infinita di finezze da grande gruppo, oltre alle solite melodie pregnanti, semplici e allo stesso tempo ricercate di chitarra, piano e violino, elementi da sempre protagonisti nei lavori dell'ensemble canadese.
La prima traccia Mladic, in pieno stile GY!BE, sfoga la rabbia della band verso Ratko Mladić (militare serbo attualmente sotto processo per genocidio, crimini contro l'umanità, violazione delle leggi di guerra durante l'assedio di Sarajevo e per il massacro di Srebrenica) con un apocalittico concerto di atmosfere abrasive, che ripetono una melodia lenta e desolata: ad aprire le danze ci pensano archi e distorsioni elettroniche, poi lentamente le chitarre imbastiscono un fragoroso crescendo, che non lascia respirare l'ascoltatore se non in pochi brevi momenti di distensione. Il brano mette subito in evidenza la più grande qualità della band (e il motivo per il quale ci è mancata in questi anni): l'abilità pressoché unica nel generare infinite variazioni sullo stesso tema, attraverso il sapiente uso di strumenti ed effetti differenti. 20 minuti fragorosi e definitivi, che aprono l'album nel miglior modo possibile.
Il secondo brano, Their Helicopters' Sing, ha come elemento portante delle cornamuse, accompagnate da una scurissima base di effetti e accordi di tastiera, che sostengono un ritmo incalzante ma rimangono comunque in secondo piano. Si tratta di una traccia adatta a fare da legame tra le due suite da 20 minuti e che mostra la superba capacità della band nell'unire sonorità apparentemente in contrasto. Già arrivati a questo punto dell'ascolto risulta evidente che ci troviamo di fronte ad un disco composto in un vero e proprio stato di grazia: l'impressione è che i nove non riuscirebbero a fare qualcosa di sgradevole nemmeno se ci provassero.
Mi dilungo con più attenzione invece nella descrizione della terza traccia, dal misterioso titolo We Drift Like Worried Fire, in quanto a mio avviso ci troviamo di fronte al capolavoro del disco: si parte con un incedere lento guidato da una melodia pizzicata sugli archi, che fa da legame ad una sequenza di accordi d'organo; allo scoccare dei tre minuti la stessa melodia accennata dagli archi viene riproposta dalla chitarra, che torna ad essere elemento dominante, fino all’entrata di batteria e violino. A differenza della prima traccia però qui a farla da padrone non è la rabbia ma la malinconia, come suggerito dal motivo principale, mentre il resto della strumentazione ci avvolge totalmente.
Come nel migliore stile GY!BE il pezzo esplode per brevi istanti, ma sono sempre esplosioni controllate, che ben si sposano con le emozioni che va a toccare dal minuto 7 al minuto 11, per poi lasciar spazio di nuovo alla melodia iniziale, quasi sussurrata con una nuova combinazione di angoscia e malinconia. La parte dal minuto 11 alla fine è a mia opinione il momento migliore dell’album e anche una delle sequenze musicali più intense ascoltate quest'anno, senza limitazioni di genere. Il gran finale è infatti l’evoluzione perfetta del pezzo, accordi veloci che tentano di staccarsi dal tono malinconico per cedere a qualcosa di più gioioso e movimentato, ma continuano ad arenarsi in momenti di intensa inquietudine, per poi staccarsi definitivamente negli ultimi 2 minuti con un crescendo da pelle d’oca.
Strung Like Lights At Thee Printemps Erable, l’ultimo pezzo, che dura più di 6 minuti e cita nel titolo la recente drammatica protesta degli studenti universitari canadesi, ci accompagna alla fine del disco, passando per sonorità simili al brano precedente, ma decisamente più cupe e dark. Nessun crescendo in questo caso, ma un rincorrersi di sensazioni angosciose, che ci lasciano solo con quello che sembra essere il prolungato suono di una campana, come a decretare la fine del viaggio.
In conclusione un lavoro chiaramente ai livelli dei precedenti, che non fa rimpiangere la lunga attesa. Speriamo solo di non dover aspettare altri 10 anni per il prossimo capitolo!