Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill (Recensione)

Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill (Recensione)

2017-11-08T17:15:50+00:0030 Ottobre 2012|


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Il vecchio Neil riunisce i suoi Crazy Horse per un’ora e mezza di cavalcate elettriche imperfette, abrasive e strabordanti: il suo miglior disco degli ultimi vent'anni?

8/10


Uscita: 30 ottobre 2012
Reprise Records
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“Dite che dovremmo civilizzarci ma noi non non vogliamo la vostra civilizzazione”: questa frase di Cavallo Pazzo risuona in ogni nota dei Crazy Horse da più di quarant’anni. Psychedelic Pill ne è una delle più memorabili testimonianze: un’ora e mezza di cavalcate elettriche, registrate in presa diretta e senza tagli, gloriosamente imperfette, abrasive, trabordanti. Una sfida alle produzioni leccate, al consumo di mp3, al tempo che corrode, a chi vive tranquillo ma muore arrugginito.

Si parte col grande capo Neil, voce e chitarra acustica: "Hey now now, Hey now now, I’m driftin’ back". Un invito a tornare indietro, trasportati da un mantra che fa eco all’indimenticabile Hey Hey My My… ed ecco che un fade cinematografico fa entrare in scena i Crazy Horse, già nel mezzo di una jam. I quattro improvvisano per mezz’ora, fregandosene di tutto (sì, anche di te, caro ascoltatore). Le due chitarre bruciano mentre la voce racconta di finti guru, music business e quadri di Picasso che diventano wallpapers. Non è solo una delle canzoni più autoindulgenti che abbiano aperto un disco. E’ anche una sfida: tu da che parte stai? Non priva di ironia, comunque: l’ultima strofa recita “Troverò la mia religione, dovrei diventare un pagano, mi farò un taglio di capelli hip-hop”. Neil, l’hai promesso eh?

La title-track ha l’unica originalità di sembrare inzuppata nell’LSD: la voce ondeggia a destra e sinistra e il suono delle chitarre è fradicio di flanger. Un trip di tre minuti che deve aver lasciato incerti anche i nostri, se alla fine han pensato di metterla come bonus track, ripulita dagli effettacci. Il primo capolavoro invece è Ramada Inn: la storia di un amore che dura negli anni, vede i figli partire, supera i dolori, impara la resistenza. I Crazy Horse suonano una ballata elettrica di diciassette minuti mentre Neil canta strofe con una melodia molto semplice e molto bella. La sua forza comunicativa è nella schiettezza: “Ogni giorno il sole spunta e loro si aggrappano a quello che hanno passato, lui la ama così tanto, così tanto, semplicemente fa quello che si deve fare”. Chi non vorrebbe dedicare questa canzone alla propria compagna, quando entrambi si avrà i capelli bianchi?

Seguono due pezzi meno ambiziosi, di poco più di tre minuti: Born In Ontario è un country elettrico e scanzonato, che potrebbe stare su Americana; più originale invece Twisted Road, nella quale Neil rende omaggio agli anni ‘60 rubando un riff alla Band e raccontando della scoperta di Like a Rolling Stone, dei Grateful Dead e di Roy Orbison. Imperdibile il ritratto di Dylan: “La poesia rotolava fuori dalla sua lingua, sembrava un Hank Williams con la gomma da masticare che ti chiedeva, how does it feeeels?”. Segue She’s Always Dancing, la terza lunga cavalcata del disco, che ricorda Like A Hurricane ma purtroppo non ha un riff memorabile. Spicca soprattutto per l’atmosfera dei cori, ma le due canzoni che seguono la oscurano subito.

For The Love Of Men, unico momento di raccoglimento del disco, é dedicato a Ben, uno dei due figli disabili di Neil. Si potrebbe chiamarla country se il ritornello, sostenuto da un imprevisto tappeto di archi, non si trasfigurasse in una vera e propria preghiera. Il riverbero immerge il brano in una luce crepuscolare, mentre il vibrato della voce ricorda la fiamma tremula di una candela. L'ennesima dimostrazione dello straordinario potere di Neil, che riesce ad essere poetico perché è senza retorica. e commuove così tanto perché mette in scena con sincerità sentimenti profondamente umani.

L’emozione è appena calata che attacca Walk Like A Giant, il grande capolavoro del disco e forse degli ultimi vent’anni di carriera del nostro. I Crazy Horse incedono marziali su due accordi di fuoco, condotti da un fischiettare straniante, finché il grande capo torna e canta la rabbia di una generazione: “Camminavo come un gigante sulla terra, ora mi sento come una foglia al vento, io e alcuni amici cercavamo di salvare il mondo, poi il vento è cambiato e tutto si è rotto, e mi si spezza il cuore a pensare a quanto ci siamo andati vicini". Al termine di ogni strofa parte un pezzo di quell’assolo infinito cominciato quarant’anni fa su Cowgirl In The Sand, una contorsione ogni volta più incendiaria. Alla fine la rabbia diventa suono, quel suono: quello della ruggine che non dorme mai. Un’eruzione di overdrive, l’urlo selvaggio e disarticolato delle corde. “Hoka Hey! oggi è un buon giorno per morire” urlava Cavallo Pazzo ai suoi, prima della battaglia. E Walk Like A Giant sembra proprio un gigantesco moto di ribellione verso la schiavitù che abbiamo imposto all'uomo e alla terra, verso la tecnica che ha ucciso lo spirito, guidati, come trenta e passa anni fa, da un unico principio: "“E’ meglio bruciare subito che arrugginire”.

Chiudono quattro minuti di violenza, gli strumenti che rintoccano all’unisono fra echi di feedback e rumori valvolari. E’ musica concreta, un funerale sioux, un requiem per un sogno. Il suono si spegne, nero.