Chris Cornell e compagni tornano dopo quindici anni e si confermano fuori dagli schemi: tra nuove idee ed echi dell'illustre passato, viene scongiurato il rischio flop.
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Alzi la mano chi avrebbe scommesso sul ritorno dei Soundgarden. La band, che fu avanguardia a cavallo degli anni 80 e 90 dell'allora fertile scena di Seattle, si sciolse nel 1997 divorata dal suo stesso successo e in seguito nulla avrebbe lasciato presagire una simile eventualità, nonostante il recente fiorire di reunion di vecchie glorie. Le tensioni che portarono allo scioglimento, l'impegno a tempo pieno di Matt Cameron coi Pearl Jam e soprattutto l'opinabilissima svolta artistica di Chris Cornell pesavano infatti come una pietra tombale calata sulle velleitarie speranze dei fan.
Poi nel 2010 é arrivato il tanto inatteso quanto gradito annuncio via web: i Soundgarden stavano tornando! Un concerto segreto a Seattle con l'anagramma Nudedragons come nome viene seguito dalla performance da headliner al Lollapallooza e da una serie di tour in tutto il mondo. Il set é zeppo di vecchi successi e i quattro sembrano aver ritrovato l'antica intesa e il loro potente sound.
Durante questo lungo rodaggio live, vengono pubblicati anche un paio di inediti (Black Rain, ripescata dalle session di Badmotorfinger e Live To Rise, scritta per la colonna sonora del film The Avengers) e viene annunciato un nuovo album. Ed eccoci finalmente ad ascoltare questo attesissimo lavoro, King Animal: un evento di per sè capace di dividere gli appassionati in fazioni contrapposte, un argomento buono per interminabili dispute da bar, come potrebbero esserlo un rigore dubbio o la formazione della nazionale. Figuriamoci poi dopo 15 anni di silenzio discografico e una buona dozzina di assenza dalle scene.
Così per preparare questa recensione ho pensato di chiedere l’aiuto di un mio vecchio amico, anche lui appassionato del gruppo di Seattle e, dopo qualche giorno di ascolto, ci siamo ritrovati su posizioni diametralmente opposte: io entusiasta, lui delusissimo. Quelli che trovate qui sotto sono alcuni stralci dei nostri pensieri, scambiati via email: penso possano servire a far capire quali sono le due posizioni di partenza dalle quali si può giudicare questo nuovo lavoro di Chris Cornell e compagni.
Dario:
Non ce la faccio… dovrei stroncarlo. Mi piange il cuore. Non è malaccio (sicuramente meglio di un Backspacer qualsiasi…), ma non hanno osato. Per niente. E’ un Down On the Upside con le rughe. Letteralmente. Mi sarebbe piaciuto sentire un album più stralunato, più headdownato o somewhereato, invece suona proprio come un gruppo di cinquantenni che si sono rotti di battere come forsennati. Ben Shepherd, perchè non ti sei imposto? Avresti dovuto prendere tu in mano le redini della banda… Cornell si è bruciato con Timbaland (imperdonabile la svolta demenzial-mainstream-wannabe della decade scorsa). Ma forse questo è il destino di tutti gli artisti, anche i migliori. Non si riesce a rimanere qualitativamente al top per più di un certo numero di anni. Probabilmente anche Lennon e McCartney avrebbero composto delle loffie galattiche alla reunion tre lustri dopo lo split. Come verrebbe valutato se fosse l'album d'esordio di una band sconosciuta? C'era bisogno di un album del genere nel 2012 o siamo fuori tempo massimo? Fra 10 anni, quante di queste canzoni ci ricorderemo? Questo album purtroppo va valutato anche in base a cosa l'ha preceduto, alle potenzialità (in)espresse di chi l'ha scritto e suonato. Purtroppo, non ci siamo… Ripeto, non è male, si lascia ascoltare anche volentieri, ma l'amaro in bocca rimane copioso. Lascia addosso un senso di incompiutezza. Magari fra un mesetto, dismessi i panni del fan isterico invecchiato male, riuscirò a valutarlo con maggior distacco, ma per ora….
Stefano:
Ma quale Down On the Upside con le rughe?!? Chiaramente si sente che i ragazzi hanno 50 anni, ma del resto mi pare comprensibile, se non auspicabile, che uno a 50 anni non scriva la stessa musica di quando ne aveva 25! Per me al contrario hanno fatto centro al 100%; il disco suona esattamente come dovrebbe suonare un disco dei Soundgarden, pur essendo radicalmente diverso dagli altri. La mano di Shepherd c'é e si sente, Thayil é davvero ispirato, Cameron una garanzia e Cornell, forse non graffierà come una volta… ma spacca (lui sì temevo fosse più loffio) e scrive ancora belle canzoni. Insomma, direi che gli ingredienti ci sono tutti, e li hanno pure usati bene. Anche io in fondo speravo in un disco super shepherdato, ma tutto sommato c'é un discreto grado di follia compositiva, pensa a Worse Dreams, che razza di ritornello ha?!
Fin qui i giudizi contrapposti. Venendo quindi all'oggetto della recensione, King Animal colpisce innanzitutto per la brevità inusuale per i Soundgarden: 52 minuti in totale, con 13 brani che raramente sforano i 4 minuti di durata. I testi sono tutti di Cornell, mentre la paternità delle musiche é più o meno equamente ripartita fra i quattro componenti del gruppo.
L'album comincia addirittura rabbioso con Been Away Too Long, una sorta di dichiarazione di intenti, a suggello del ritorno della band. Riff immediato, suoni aspri, voce e batteria in primissimo piano, quasi a sottolineare due tratti distintivi della band. Seguono due brani meno aggressivi ma il ritmo rimane teso: Non-State Actor é tagliente e politica, mentre in By Crooked Steps ad un riff secco ed ossessivo fanno da contrappunto l'ampia melodia della voce e i ricami di Thayil.
I primi tre brani passano in un soffio. Poi A Thousand Days Before cambia registro e l'atmosfera si fa più evocativa: Thayil arabeggia, la batteria pulsa, spuntano anche fiati e percussioni. Con Blood On The Valley Floor arriva un riff granitico stile Badmotorfinger, mentre Cornell vola altissimo. Bones Of Birds é lenta e malinconica, Taree è oscura ma con un groove incalzante, Attrition invece una breve cavalcata dal sapore quasi punk.
Black Saturday si apre con chitarra acustica e voce, dove non stonerebbe un duetto Cornell – Staley (sigh!). Progressivamente entrano gli altri strumenti, fino ad una sezione fiati composta da tromba, trombone e sax, in un crescendo che porta a un momento di sospensione raffinatissimo e infine ad una chiusura polifonica. Halfway There invece é una ballata pop che potrebbe essere uscita dal miglior repertorio solista di Cornell (tranquilli, qui non c'é traccia di Timbaland), impreziosita dal contributo degli altri tre. Il testo tratta di come spesso i sogni e ambizioni di una vita svaniscano in una società votata al conformismo.
Il disco sembra ormai scivolare via su note agrodolci, ma con Worse Dreams ritorna inaspettato il “diabolus in musica”: il brano si apre con dei suoni di chitarra spettrali su cui si insinuano sinistri la linea di basso e una cantilena di Cornell, fino ad esplodere in un ritmo sghembo e dissonante. Chapeau!
Chiudiamo infine con due brani dalla struttura simile: un ritmo lento e cadenzato che costruisce un crescendo di tensione incentrato prevalentemente su basso e batteria, fino a prorompere in un momento di rottura. Eyelid's Mouth ha toni più cupi e un suono più tipicamente rock, mentre Rowing sembra quasi un mantra, intessuto su un singolare e insistente giro di basso; intensa la parte centrale con la voce di Cornell e la chitarra di Thayil che si levano e si intrecciano fra loro.
In conclusione, a mio modestissimo avviso, King Animal é davvero un bel disco. Certo non rappresenta una novità dirompente, né sarà ricordato come un disco epocale, ma del resto non esiste nemmeno il contesto per cui lo possa diventare. Al di là degli indubbi meriti musicali, Superunknown così come altri dischi del periodo d'oro del “grunge” (Nevermind, Ten, Dirt per citarne solo alcuni) hanno infatti rappresentato dei veri e propri inni generazionali, la bandiera di un intero movimento musicale, ed é difficile, forse impossibile, che lo stesso artista riesca a incarnare un sentimento così diffuso nell'arco di decenni.
Ad ogni modo anche con questo nuovo lavoro i Soundgarden si confermano una band fuori dagli schemi, capace di rielaborare il proprio linguaggio senza cadere nella trappola dell'autocitazione. L'album é ricco di idee, suona fresco e diverso dai precedenti, seppure vi si possano avvertire gli echi della passata produzione della band e siano ben presenti tutti gli elementi che la caratterizzano: i riff potenti e cupi, le armonie ricercate e a tratti bizzarre, una sezione ritmica da urlo e, non ultima, la voce di Cornell. Bentornati, Knights Of The Soundtable!
Si ringrazia Dario Pegorin per il suo contributo.