Come a smentire i fan dell’ultima ora (quelli che si sono accorti di lui solo con gli ultimi due album prodotti da Richard Swift), Damien Jurado si presenta sul palco dell’Hana-bi in splendida solitudine, solo lui e la sua chitarra acustica, per un’ora di puro concerto folk. Nessuno spazio per gli elaborati arrangiamenti neo-psichedelici di Maraqopa, né per le influenze countreggianti che a volte si affacciano nei dischi in studio: per il suo primo concerto in Italia il veterano cantautore si affida completamente alla sua voce, in grado di passare con agilità da un registro all’altro, e ad uno stile chitarristico semplice ma efficace.
E’ una scelta che, se da un lato non rende giustizia agli arrangiamenti sempre inventivi con cui Jurado ha vestito le sue canzoni fin dai tempi dell’esordio Waters Ave. S., dall’altro fa risaltare in modo evidente le sue capacità di autore: ogni brano (il dolente racconto di infedeltà Sheets, la nostalgica Working Titles, l’accorata dichiarazione d’amore in falsetto di Museum of Flight) riesce a catturare l’attenzione del pubblico, o almeno di quella cinquantina di adepti seduti sulla sabbia davanti al palco che sono saggiamente rimasti in silenzio, mentre il resto dello stabilimento balneare andava avanti con il suo vociare, incurante della proposta musicale della serata. Quello che avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un concerto soporifero, si è così trasformato in una dimostrazione del talento del cantautore di Seattle, che ha agilmente riarrangiato per chitarra e voce l'andatura da marcetta di Arkansas e le svisature orchestrali di Nothing Is The News, senza far soffrire eccessivamente i brani.
Sul palco Damien indossa jeans e camicia a quadri d’ordinanza per un cantautore del Pacific Northwest ed è quello che si dice un tipo di poche parole: alla fine di ogni brano c’è appena il tempo di applaudire per pochi secondi prima che inizi la canzone successiva, con l’unica eccezione di un breve monologo durante il quale ricorda con nostalgia “quando anche negli Stati Uniti si poteva fumare ai concerti, prima che lo vietassimo visto che siamo jerks”.
In scaletta molti brani dagli ultimi quattro album usciti per Secretly Canadian, con l’aggiunta di un paio di recuperi dal passato remoto (Ohio, Letters and Drawings) e un’inquietante Intoxicated Hands, tutta cantata vicinissimo al microfono per trasmettere il senso di claustrofobia dell’originale.
E sul finale è proprio l’inquietudine che corre sottotraccia a molti suoi brani a prendere possesso del concerto: Damien trasforma Ghost of David in un lungo incubo tutto giocato su un unico accordo, con un testo improvvisato che lo vede per la prima volta urlare con rabbia nel microfono. E’ un finale ipnotico, ma non molto in linea con il resto dello show: tuttavia appena lascia il palco, il pubblico devoto lo acclama con forza perché torni per un bis. Purtroppo, nonostante siano solo le 23:30, il concerto finisce qui: un peccato, dal momento che Jurado non è certo un cantautore con carenza di materiale, ed è raro vedere un pubblico così partecipe in una cornice prettamente estiva come quella dell’Hana-Bi.
Un bel concerto quindi, non molto in linea con il luogo per la verità, dal momento che la musica di Damien ha sempre ricordato i boschi e le distese innovate del Nordamerica più che i tepori mediterranei. Non era facile riprodurre da solo gli arrangiamenti elaborati degli ultimi dischi, ma Jurado ha dimostrato come, quando le canzoni sono costruite per durare, non c’è bisogno di molto per farle funzionare. Nel più puro stile del cantautore di Seattle, un piccolo miracolo di inventiva e economia musicale.
Sopra: "Damien Jurado @ Black Cat Backstage", foto di Mikekatzif