Eccoci di nuovo a scovare nuovi talenti nei meandri della periferia inglese. Nel sottobosco del Somerset spuntano diverse nuove band, ma il trio di cui vi parlerò oggi mi sta particolarmente a cuore. I Port Erin sono un trio attivo dal 2007, due volte sul palco di Glastonbury, due album all’attivo: Albion the Common e Wheel inside A Wheel, uscito lo scorso ottobre. I Port Erin rappresentano al meglio la realtà musicale inglese, fatta di giovani lavoratori con una forte passione per la musica, ben lontana dallo stereotipo del teenager hipster post-gaze. Il successo che stanno avendo ora se lo sono sudato, ma sono sicura che il loro "andare a caccia di musica" sarà premiato al più presto. Vi lascio intanto con la mia chiaccherata più che informale con Rueben, cantante e manager DIY della band.
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Name: Port Erin
Città: Somerset
Genere: To be confirmed
File Under: Sycamore Age, Talking Heads, Elbows
Sito web: www.porterinmusic.co.uk
Avete iniziato nel 2007. Come sono partiti i Port Erin, e come vi siete conosciuti?
Beh, siamo tutti cresciuti assieme. Cerys, il batterista, viene dal nostro paesino. L’anno prima di iniziare i Port Erin, nel 2006, io e mio fratello con una lineup differente, abbiamo fatto un tour. Abbiamo chiesto ai Coaster di suonare con noi durante alcune date – il loro batterista era Cerys. Un giorno siamo arrivati in anticipo per un concerto a Cambridge e abbiamo improvvisato una jam session. Alla fine del tour una parte dei Port Erin si è distaccata, la band di Cerys è lentamente crollata in mille pezzi, e ci siamo ritrovati a suonare assieme. Ma siamo stati a scuola assieme, elementari e medie, quindi c’è una certa storia alle spalle. Da qualche parte c’è persino un video di Jacob e Cerys che suonano assieme quando avevano tipo 10 anni.
Si direbbe quasi che la musica sia una cosa di famiglia. Ascoltando il disco, ci sono così tanti livelli diversi nella vostra musica, e mi chiedevo: condividete le stesse influenze? O si tratta di una combinazione di influenze diverse?
Diciamo che siamo tutti in grado di riconoscere quando una buona canzone è effettivamente una buona canzone. Se riconosciamo il valore di una canzone l’amiamo tutti allo stesso modo, ma abbiamo gusti molto differenti. Cerys è il “beats man”, ovviamente essendo il batterista, quindi adora hip-hop, drum n’ bass, e qualsiasi cosa basata sul ritmo. Jacob è il “jazz man”, suona con diverse band della zona, fa diverse session come bassista. Direi di potermi definire un tipo da “singer/songwriter” e “band band”.
Beh, ora tutto ha più senso, in quanto il vostro disco risente di questa ricchezza di influenze. Da Albion The Common a Wheel Inside A Wheel, in che modo è cambiato il vostro modo di fare musica? Possiamo parlare di una crescita da parte vostra?
Sicuramente, ai tempi di Albion The Common eravamo appena sopravvissuti all’esuberanza giovanile e vivevamo tutto molto impulsivamente, senza neppure pensarci su. Dopo il disco ci siamo ritrovati a chiederci dove fosse diretta la band musicalmente. Avendo fatto così tanti show live non hai idea di cosa stai facendo, a meno che tu non abbia la possibilità di registrarli. Nonostante la nostra reputazione fosse principalmente come live band dopo il disco abbiamo deciso di chiederci cosa volessimo invece di ascoltare gli altri. Siamo arrivati a quel punto, ne siamo usciti, e abbiamo iniziato a suonare in un modo molto più naturale. Di norma, suonavamo due volte a settimana e registravamo tutto, e da li è nato un nuovo set. Ci sono voluti due anni e mezzo/tre anni per arrivare a quel punto. Quindi sì, sapevamo che in ogni modo il secondo album sarebbe stato più difficile. In questi tre anni, abbiamo sperimentato così tanti stili, solo per capire che tipo di band fossimo. Ancora non siamo arrivati ad una risposta! Ma ci siamo sicuramente avvicinati con questo disco. Se pensi che questo sia complesso, dovresti sentire quello precedente!
Beh, non la definirei una cosa negativa, perchè senti il filo conduttore nel disco. Tuttavia, ci sono così tanti riferimenti che è difficile trovare un genere solo, tutto sembra stare troppo stretto. Alla fine il genere non è così importante, fintanto che a voi va bene così.
Sì, a lungo termine è probabilmente una buona cosa. Anche ai Radiohead ci sono voluti sette anni per farsi capire dalla gente. Il pubblico apprezza ma non si agita, stanno in piedi e dopo le canzoni si chiedono “cosa diavolo sta succedendo?” Ma dal punto di vista artistico per me è bello, il fatto di lasciare qualcuno esterefatto e non fargli capire cosa stia succedendo.
Beh, sicuramente questo accade avendo suonato così spesso, sia sul palco che in radio. Credo ci sia qualcosa di particolarmente attraente nella vostra musica: c’è un aspetto particolare che vi piace nello stare sul palco?
La reazione istantanea del pubblico. Sai che alla gente piaci, sai che in quella mezzoretta su palco è tutto perfetto e la gente lo apprezza. E la spontaneità del momento: ogni concerto è un po’ diverso per noi, abbiamo cercato di registrarli ma quando ci riascoltiamo non ci ricordiamo di avere suonato così.
Avete suonato in tanti locali diversi, non solo a Londra ma anche a Salisbury e Frome, dove c'è una mentalità molto diversa. Come siete finiti a Glastonbury?
Beh, ci abbiamo suonato la prima volta nel 2010, ed è tutto stato fatto via mail. Credo che fosse un amico che aveva prenotato per suonare, ci ha raccomandato e ci è stato chiesto di suonare. L’anno successivo, ci hanno chiesto di suonare ancora. Ma a meno che tu non suoni sui palchi grandi è come suonare in un altro concerto. Il pubblico più grande che abbiamo avuto è stato 250-300 persone.
Beh credo che sia comunque una atmosfera diversa.
Sì, anche solo essere lì, vedere il tuo nome nel programma, anche se magari solo a pagina 400, font numero 6. L’abbiamo fatto! Quello è stato davvero fantastico.
Siete anche stati attivi supporter per diverse band, c’è un aspetto che vi piace particolarmente dell’essere i primi ad aprire le danze?
Beh, ci piace supportare altre band, soprattutto come main supporter perchè hai il pubblico e hai la possibilità di dimostrare alla gente cosa offri, e non si aspettano di averti sul palco. In queste situazioni suoniamo proprio come se fossimo headliners, perchè siamo parecchio contrariati dal fatto che queste band abbiano un'etichetta con dei soldi alle spalle e noi no! (ride) Sai cosa intendo, vero? Vogliamo dimostrare che siamo in grado di farlo anche senza avere nessuno alle spalle.
Dato che hai appena introdotto l’argomento: essere completamente indipendenti. Voglio dire, tu sei anche manager della band. Quali sono i pro e i contro?
Diciamo che di contro c’è la mancanza di supporto di cui parlavo prima, per quanto riguarda radio e booking, etc. I pro al momento sono che la maggior parte delle band ora non ha un contratto, e se lo ha è richiesto di sfondare subito con il debutto. Un tempo si parlava di contratti per 4-5 dischi, senza tutta questa pressione da parte dell’etichetta, aspettando il terzo o quarto per raggiungere qualche risultato. Da un certo punto di vista ha aiutato molto il programma BBC6 Mixtape, che in qualche modo mette in risalto anche band che non hanno un contratto. A noi va bene così, sicuramente ci arrivano molti più soldi dalla vendita dei dischi: 10 pounds mentre i Mumford & Sons probabilmente devono smezzarsi 50 centesimi. Ma sicuramente allo stesso tempo è difficile gestire tutto, con amministrazione, royalties etc. E molta gente non ti prende sul serio.
Hai appena parlato del passaggio su BBC6 Mixtape, come è stata la reazione?
Beh, è stato ottimo! Siamo stati scelti per la prima volta da BBC6 nel 2009, ma questa volta con Mixtape si sceglie tra 20 band senza contratto, e Tom Robinson [dj della BBC, ndr] ne sceglie 2-3 da far suonare al suo live show. E noi non sapevamo neppure che avrebbe fatto passare la canzone! Insomma, essere in radio sabato sera alle 10 ci ha fatto sentire come se il nostro lavoro fosse stato fatto. Sicuramente non cambierà molto in termini di profitto, ma noi siamo soddisfatti! Eravamo in playlist con nomi come Elbow e Sex Pistols! Insomma, eravamo su un programma ufficiale, quindi alla fin fine una band senza contratto può fare tutto quello che fa una con un contratto, anche se in scala ridotta.
Sicuramente il fatto di aver scelto come produttore qualcuno al di fuori della band vi avrà dato degli spunti. Come è stato lavorare con Marco Migliari?
Il processo ci ha aperto completamente gli occhi. Diciamo che prima avevamo sicuramente lavorato con personaggi rispettabili, ma lavorare su tutto il processo, dal demo alla pre-produzione, la registrazione e poi la post-produzione…credo che Marco sia stato la colonna vertebrale di questo disco. Il suo umore non è mai cambiato durante la registazione, era sempre felice e pieno di entusiasmo. Durante quell’anno sono state innumerevoli le vibrazioni all’interno della band, e sembra impossibile che per tutto il tempo lui sia stato lì a supportarci. Io credo che si senta nel disco stesso, questo ha sicuramente aiutato a creare coesione nella musica. Lavorare con lui è stato fantastico!
Come è stato il riscontro del pubblico fino ad ora, dall’uscita ufficiale nello scorso ottobre?
Ottima, fino ad ora! Sta crescendo pian piano. Non avevamo soldi per una vera e propria campagna promozionale, perchè abbiamo speso tutti i soldi per fare il disco. Considerando che abbiamo solo fatto una anteprima locale e suonato in giro per la zona, direi che il riscontro è stato positivo. Ma credo che la giusta esposizione arriverà quando ci sentiremo pronti per accoglierla come band. È stato un lungo viaggio, sappiamo che si tratta principalmente di scrivere belle canzoni. Quindi anche se riceviamo una buona recensione, o un passaggio in radio, siamo sicuramenre contenti, ma in primis la canzone deve essere buona secondo noi. Magari quella canzone era buona ma non la migliore nel disco, e siamo consci di poter fare di meglio.
Qual è secondo te la canzone migliore del disco?
Probabilmente la mia preferita è la terza, Let It Go. È stato così interessante registrare questa canzone, la canzone più difficile del disco. L’abbiamo scritta solo due settimane prima delle registrazioni, è venuta fuori dal nulla, non riuscivamo a trovare il testo o la melodia. Poi è arrivato il violino e tutto è cambiato. È stata l’ultima di cui abbiamo registrato la voce, e i cori sono stati registrati alle 3 del mattino – figo eh? Ci sono questi piccoli pezzi, come le chitarre sovraincise, che ci piaccono molto. È stata probabilmente la canzone con più lavoro di produzione, per capire dove sarebbe andata a finire. Non avevamo idea di come sarebbe finita.
L’avete semplicemente “lasciata andare” (Let It Go…)
Esatto! Dal punto di vista lirico, non riuscivo a scrivere le parole del secondo verso. E poi l’ultima notte, proprio prima di registrare, Marco chiede “Siete pronti?”, e io inizio “Eeeeh, insomma…”. E stata l’unica volta in cui ha completato la canzone, o si è intromesso nel disco in qualche modo. E stato un ottimo produttore, non ci ha frenato. Lo ha reso facile, senza che le emozioni avessero la meglio.
Quindi la scrittura delle canzoni cambia da pezzo a pezzo?
Cambia ogni volta. Le canzoni di cui scrivo i testi con la chitarra nascono già nella mia testa pronte per essere registrate così come nascono. E gli altri non apprezzano particolarmente questo tipo di canzoni, quindi cerco di non farlo troppo spesso. Ma ci sono alcune canzoni che nascono naturalmente con batteria e giro di basso, e sappiamo tutti che saranno ottime canzoni. Oppure le jam sessions di mezz’ora o un’ora e in quel tempo solo 30 secondi varranno la pena di venire sfruttati e andranno a costruire la base sulla quale si formerà il resto della canzone. Jacob ha scritto il giro di basso di Hold On, la canzone che è finita in radio, e da quel giro di basso io ho sviluppato la chitarra, e tutto è nato assieme. Non c’è un ordine preciso comunque. Le parole non fluttuano nel vuoto, ogni canzone ha la sua piccola storia.
E da dove vengono queste storie?
Prevalentemente dalla mia esperienza personale, ma nulla di troppo intenso. Non sono Damien Rice! Quelle che non mi piacciono particolarmente sono le canzoni che si sviluppano tutte sul concetto di “Mi ha lasciato!”. Tutti hanno quel certo tipo di emozione, ma non credo sia necessario ripeterlo così tanto!
Un’altra domanda, ma solo perchè sono curiosa: c’è un album, artista, canzone che ti ha fatto pensare “questo è ciò che vorrei fare per il resto della mia vita?”
Si, dopo il primo disco non sapevamo cosa ne sarebbe stato di noi e c’era il pensiero ricorrente di dare l’estremo saluto alla band, dopo 200 live, e il disco etc. Poi una sera stavo guardando il DVD dal vivo dei Talking Heads Stop Making Sense e (come probabilmente tanti hanno detto prima di me!) quel concerto mi cambiato la vita! Ho inizato a pensare “Devo assolutamente farlo anche io” e da allora pensare a quella notte mi rende vivo. Ed è per questo che il disco si chiama Wheel Inside A Wheel – come il testo di Slippery People dei Talking Heads. Quelle parole, non ho idea di cosa voglia dire quando le canta! Suona solo maledettamente giusto. E fino all’ultimo mix non avevamo la più pallida idea di come chiamare il disco. Ma ci piaceva, era un modo per rivogerci agli altri artisti. Suona un po’ hippie, vero?
No, assolutamente, mi piace! Tirando le somme, qual è la cosa di cui andate maggiormente fieri come Port Erin negli ultimi 12 mesi?
Sono particolarmente fiero di dove siamo arrivati ora, perchè in questo mese abbiamo tirato le somme, e si è parlato di un sacco di soldi. Abbiamo speso 3 volte quello che avremmo dovuto spendere e ci siamo dovuti fare una sfilza di live nei pub. Odiamo le bettole. Non fraintendermi, abbiamo anche suonato in pub fantastici, saliamo sul palco e suoniamo per 45 minuti, ma non è quello che vorremmo fare in futuro. Vorremmo fare grandi show, ma per ora il fatto di aver superato questo periodo difficile è già un successo. La notte prima dell'uscita del disco abbiamo avuto una grossa lite, orribile. Il fatto che l’abbiamo superata, e abbiamo fatto altri 30 show, e i passaggi in radio, le recensioni…sai che voglio dire? Ci siamo messi in testa di scrivere un nuovo disco entro fine anno, e questo ci ha reso fieri di non aver mollato e dato il meglio. Non suoneremo tantissimo, ma saremo a Bath ad esempio a giugno, alla Chapel Arts. Nei prossimi mesi cercheremo di non andare a caccia di concerti, ma di musica!
Qui sotto potete ascoltare in streaming tre brani dal nuovo album Wheel Inside a Wheel.