Luci fioche e molte ombre: Trent Reznor ci guida in un oblio elettronico senza alternative, ma non riesce a far dimenticare i Nine Inch Nails.
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Per tre anni il silenzio, ora arriva l'oblio firmato How to destroy angels_. Era il 2010 quando Trent Reznor (leggasi Nine Inch Nails), Mariqueen Maandig (sua consorte) e Atticus Ross (produttore dei NIN) rilasciarono il loro primo eponimo EP, dove l'eredità sonora dei "chiodi da nove pollici" (e del loro ultimo disco, The Slip) era ancora ben palpabile: tra vecchi marchi di fabbrica si univano nuove sperimentazioni che sapevano unire elettronica, marimba, ukulele e ritmi tribali (The Believers) in una nuova formula, diversa da quella già proposto in The Fragile. Le stonature furono perdonate visto che ci trovavamo palesemente di fronte ad un'opera di transizione, il primo passo verso una nuova strada per le fucine Reznor&Co.
In seguito a tanta attesa e all'antipasto An omen_ arrivato nel 2012, ecco finalmente Welcome oblivion. Un prodotto più completo e raffinato rispetto al primo EP, che ricorda sotto diversi aspetti le scelte stilistiche di Year Zero, rispettando però la vocazione profondamente elettronica degli HTDA: nessuna batteria, solo drum machine; tappeti frenetici di sintetizzatori modulari, le chitarre messe in castigo nell'angolo. Tra le altre novità la presenza nell’insolista veste di musicista del grafico Rob Sheridan, collaboratore di lunga data di Reznor, e un fugace contributo di Alessandro Cortini – connazionale emigrato nottetempo a Los Angeles – già tastierista dei Nine Inch Nails. A darci il benvenuto e un'idea di cosa ci aspetta, prima ancora di premere Play, ci pensa la copertina: una sagoma umana avvolta nelle interferenze elettrostatiche che aumentano col proseguire dei brani.
Poi, dopo il crescendo del brano d’apertura, che riecheggia in chiave synth il primo pezzo di Year Zero, ci si sente immergere fin da subito in un mondo indefinito, freddo e in perenne penombra, dove tutto è svuotato, apatico, sospeso, quando non paranoico, sia nei testi distopici da apocalisse imminente, sia nelle melodie e nei climax soffocati. A integrare tale sensazione ci pensano i loop asettici e secchi che si ripetono all'infinito disorientandoci e facendoci perdere la cognizione del tempo.
Il singolo Keep It Together è sostenuto da una semplice linea di cupo basso sulla quale la prevedibilità dei loop elettronici è destabilizzata da una drum machine frantumata, farcita di glitch e voci fuori tempo, a volte incerte. La frenesia elettronica nevrotica e distorta continua con le tracce successive, And the Sky Began to Scream e Welcome Oblivion, fino al punto di rottura più clamoroso: Ice Age è uno scoglio isolato dove la marea di sintetizzatori e voci distorte si ritira, cedendo il passo ad un inedito loop glaciale di banjo e marimba dai connotati folk che non ti aspetteresti mai da Trent Reznor. È una dolce e fredda preghiera ("Tutto sembra uguale eppure tutto è cambiato […] Oceano, aiutami a trovare una strada / Oceano, portaci via"), prima di ripiombare nella tempesta elettronica di On the Wing, la quale però ci regala un outro soffuso accompagnato da dolci note di pianoforte. L’eco lasciato da Ice Age non sembra però ancora terminata, tanto che Too Late, All Gone ripropone alcuni suoi versi, ripetuti nel ritornello allo stremo:"Più cambiamo, più tutto è uguale". Un'altra svolta è nella pop e orecchiabilissima How Long?, con il coro di voci di Mariqueen che regala gli unici brevi momenti di luce in questo viaggio elettro-crepuscolare, anche se ripete con un tocco di preoccupazione: "Per quanto ancora possiamo continuare?"
Strings and Attractors alterna l'asetticità minimal glitch delle strofe alla soffusa melodia del ritornello, mentre nella traccia successiva We Fade Away la dolcezza del brano si intreccia con elementi elettronici aggressivi e messaggi paranoici al limite della schizofrenia:"Sto parlando da sola? /[…] Il destino ha perso la sua via / Noi abbiamo perso la via / Stiamo svanendo…" Da questo punto in poi è un crescendo di sperimentazione, dove le scelte musicali operate nelle colonne sonore scritte da Trent insieme a Atticus Ross si fanno predominanti: ci sono i pianoforti scordati di The Social Network e le scivolate di chitarre di The Girl with the Dragon Tattoo.
Sul finale risulta piuttosto insipida Recursive Self-Improvement , seguita dalla proto-dance The Loop Closes, la quale conserva la tipica struttura degli strumentali dei Nine Inch Nails: un lento crescendo che dopo una pausa si conclude esplodendo con sobrietà. Questo lungo viaggio termina con Hallowed Ground, 7 minuti di colonna sonora dove tutto rallenta e si ferma, mentre le emozioni umane e la speranza fanno timidamente capolino in mezzo al deserto esistenziale ed etico del disco.
Dovendo tirare le somme, direi che l'album pecca di troppa immediatezza in certi passaggi, rischiando di annoiare. Solo con un ascolto più attento si possono apprezzare le tipiche peculiarità Reznoriane: il gusto per i dettagli, la scultura del suono (chitarre che non sono chitarre e via dicendo), anche se rimane il sospetto che alcune tracce siano solo dei riempitivi. A tre anni dall’esordio gli HTDA tracciano diverse vie interessanti, ma non hanno ancora deciso quale intraprendere. I piatti forti dell'album erano già stati pubblicati in An omen_, quindi se quest'ultimo vi aveva lasciato indifferenti, vi consiglio di non perdere altro tempo. Purtroppo a volte la band (considerata anche la sua line-up) sembra uno spin-off buono a riciclare materiale di seconda scelta dei Nine Inch Nails. Arriveranno tempi migliori, sempre se dopo averci dato il benvenuto non sarà proprio l’oblio a riassorbirli.