Un impasto di vecchio e nuovo per il ritorno di Casablancas & co.: peccato che a mancare sia la spontaneita'.
|
Diciamolo subito, l’ultimo lavoro degli Strokes non passerà alla storia come il loro album migliore, anzi se messo a confronto con il celeberrimo Is This It quest’ultimo LP sembra inciso da dei lontani cugini di Casablancas & co.
Provando ad analizzare in modo oggettivo Comedown Machine quello che appare chiaro è la duplicità armonica, la doppia anima che fa da leit-motiv all’ascolto. Questo è ravvisabile già dai primi due singoli lanciati per promuovere il disco: One Way Trigger e All the Time, il nuovo e l’antico. Mentre nel primo brano si riascolta il nuovo sound che la band sta ancora cercando di far proprio, orientato verso i ritmi dancefloor degli anni '80, il secondo invece è l’altro lato della medaglia, quello che richiama i vecchi Strokes nella loro veste più rock (alla Reptilia, per intenderci), che i fan di vecchia data ameranno anche in questo album. L’altalena di sensazioni è costante: Tap Out ad esempio ci fornisce delle divagazioni electro-rock che difficilmente si potrebbero associare agli Strokes che conosciamo e che richiamano l’andamento della già citata One Way Trigger. 80s Comedown Machine e 50/50 invece sono gli echi della loro vita passata, della band che aveva riportato in auge il sudore delle schitarrate, i ritmi incalzanti e il sound garage rock.
Interessanti ma non sempre riusciti gli esperimenti che escono da questo dualismo: Welcome to Japan presenta venature funk e molto orecchiabili che ne fanno un pezzo da ascoltare a ripetizione, ma Slow Animals ondeggia tra leggerezza e ballabilità in modo fin troppo facile per gli standard del gruppo. Infine Partners in Crime sancisce l’abbandono definitivo delle sonorità indie per abbracciare il pop ed una fascia di pubblico che forse permetterà agli Strokes di scalare le vette delle classifiche, a discapito però di chi li ha amati da sempre per il loro sound ruvido. Fortunatamente il disco si conclude con Call It Fate, Call It Karma, una ballad nostalgica che è la novità più piacevole introdotta dall'album e lascia ben sperare per la seconda vita della band.
La quinta opera del gruppo newyorchese sembra perciò chiudere il cerchio: Comedown Machine è la conclusione naturale del contratto firmato con la label RCA e forse è anche per questo che campeggia sulla sua copertina la sigla a lettere cubitali della casa discografica sotto la cui ala gli Strokes hanno costruito la loro ricca carriera. Tuttavia non si può parlare certo di normale evoluzione delle cose se si considera il predecessore Angles: i due dischi sono agli antipodi, mentre il primo aveva un filo conduttore delineato da suoni rock tesi e nervosi, quasi a manifestare i difficili rapporti tra i membri della band in quel periodo, Comedown Machine invece si mostra più disteso e rilassato, con l’atmosfera più che polverosa da rock sixties che ammicca sfacciatamente ai party della decade successiva. Radical-chic non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente, non fosse altro che per il mood ruffiano che sembra accompagnare l'album, nonostante la sua eterogeneità.
Come il sapore del vino varia a seconda delle papille gustative che lo assaporano, lo stesso discorso vale anche per la percezione della musica, ma se il rock 'n' roll è da sempre stato fondato sulla spontaneità, Comedown Machine risulta un po’ troppo costruito rispetto a quello che dovrebbe essere il fluire passionale di questa musica.