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[space height=”10″]Black Sabbath: 13
Normalmente non credo ci si possa aspettare niente di buono dalla reunion di un gruppo di ultra-sessantenni la cui fase d’oro è finita quasi quarant’anni fa. Eppure l’idea di Ozzy Osbourne e compagni che finalmente fanno sul serio e tornano a riprendersi il genere che hanno inventato, saltando a piè pari tutte le degenerazioni dell’hard rock anni’80 e ’90, è alquanto allettante. Ce la faranno? Non sono molto ottimista a riguardo, ma l’inizio con singolo da 9 minuti è promettente…
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[space height=”10″]Surfer Blood: Pythons
Questo quartetto della Florida fece il botto qualche anno fa con un disco che aveva un’unica idea: rileggere il surf-rock degli anni ’60 in chiave distorta e modernizzata. Non era male da ascoltare per un’estate, ma da qui a dire che sentivamo bisogno di un secondo capitolo, ce ne corre. Se poi aggiugniamo che il cantante John Paul Pitts negli ultimi tempi è salito agli onori delle cronache più per aver preso a pugni la sua ragazza che per la musica, mi sa che non c’è molto da sperare.
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[space height=”10″]Beady Eye: BE
Arrivati a questo punto, cosa ci si può aspettare da Liam Gallagher? Mentre il fratello Noel ha dimostrato ancora una volta di essere quello con il cervello (e le doti compositive) reinventandosi in maniera sorprendente con i suoi High Flying Birds, Liam per far parlare di sè ormai deve attaccare una celebrità ogni giorno, oppure ricorrere a trucchetti di basso livello come quello di farsi produrre da Dave Sitek dei Tv on the Radio (che è apparso decisamente bollito nei suoi ultimi lavori). Ma il fondo l’ha toccato quando, parlando di questo disco ad un fan sedicenne, pare gli abbia detto: “Vedrai che ti piacerà molto, se fai uso di droghe”. Un signore come al solito, il nostro Liam…
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[space height=”10″]Boards of Canada: Tomorrow’s Harvest
Ad otto anni dal precedente The Campfire Headphase, il ritorno di questi pionieri della musica elettronica più spacey (diciamo che gente come Four Tet e Caribou deve loro parecchio) è stato accolto da un’attesa spropositata, con tanto di listening party in mezzo al deserto, manco fossero i Daft Punk. Beh indovinate un po? Non sto nella pelle, forse non avremo di fronte un secondo Music Has The Right to Children (ma dai?) però i due inglesi finora non hanno sbagliato un colpo e non vedo perché dovrebbero iniziare ora…
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[space height=”10″]Overseas: Overseas
Qui si va sul personale. Overseas non è altro che l’incontro tra tre miei eroi personali, nonché protagonisti della scena slowcore americana degli anni ’90: il sempre sottovalutato David Bazan (ovvero Pedro the Lion) e i fratelli Matt e Bubba Kadane (ovvero le eminenze grigie dei Bedhead). Cosa ne potrà mai venire fuori? Un disco sonnolento e ispirato, totalmente fuori dal tempo e in controtendenza rispetto alle ultime mode elettroniche e danzerecce. E come al solito noi nostalgici ci innamoreremo ancora di più di questi eroi minori e semisconosciuti.
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[space height=”10″]Sigur Ros: Kveikur
So di essere in netta minoranza, ma non ho mai amato particolarmente i Sigur Rós: con gli anni la loro proposta, che nei primi anni sembrava piovuta letteralmente da un altro mondo, si è adagiata su forme sempre più autocelebrative, musica buona per fare da tappezzeria o da colonna sonora, senza la capacità di graffiare come i migliori Mogwai. Tutto questo ovviamente non va a cambiare di un centimetro il loro status di superstar, specialmente qui in Italia, dove insieme ai Radiohead sono praticamente “la band da ascoltare” per chi voglia dimostrare un interesse verso la musica che vada al di là delle compilation del Festivalbar. Quindi come mai non stronco definitivamente questo settimo disco? E’ semplice: pare che Jónsi e compagni si siano accorti di essere arrivati ad un passo dalla musica new age con l’ultimo album Valtari, e abbiano operato una clamorosa auto-correzione: sono rimasti in tre e parlano di un sound “più aggressivo” rispetto al passato. Quanto ascoltato finora (Brennisteinn, Ísjaki e Kveikur) mi fa ben sperare: li avremo recuperati?