Che i pre-giudizi settimanali si debbano trasformare in pre-giudizi mensili? Ecco cosa è uscito mentre eravamo in vacanza e nelle ultime battute di questa estate, prima che arrivi l’alluvione di dischi di settembre-ottobre a farci tirare le somme di questo 2013!
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[space height=”10″]Bloc Party: The Nextwave Sessions EP
Nuovo EP e canto del cigno dei Bloc Party, dal momento che la band pare intenzionata a separarsi di nuovo dopo questa release. Non so a voi, ma a me non è che mi metta dell’umore migliore sapere di essere di fronte ad un disco di canzoni composte da gente che ormai non si sopporta, tanto più che i quattro inglesi avevano già dimostrato di essere a corto di idee dopo il primo album: una cosa è certa, non mi mancheranno!
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[space height=”10″]Califone: Stitches
I Califone sono un altro esempio di uno di quei gruppi che avrei dovuto ascoltare, e invece non hanno mai trovato spazio sul mio stereo. Peccato: da quello che mi dicono la band di Tim Rutili (ex leader dei Red Red Meat) ha prodotto alcuni tra i dischi acustico-sperimentali più interessanti degli anni 2000, oltre a servire come base d’appoggio per uno dei miei produttori preferiti, Mr. Brian Deck (il cui nome rimane legato allo splendido The Moon and Antarctica dei Modest Mouse).
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[space height=”10″]Crocodiles: Crimes of Passion
Brutta cosa quando la gente si ricorda di te solo perché tua moglie è famosa: deve essere quello che tormenta il povero Brandon Welchez, che da qualche anno ha visto i suoi Crocodiles sorpassati a destra dalla popolarità delle Dum Dum Girls della sua amata Dee Dee. Del resto, se non fai della musica decente prima o poi la gente se ne accorge, e questo quarto album dubito che riuscirà a cambiare la situazione.
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[space height=”10″]Dent May: Warm Blanket
Penso di essere uno dei pochi a prendere sul serio questo cantautore del Mississippi. La gran parte della critica specializzata lo ignora da anni, oppure lo vede come una specie di eccentrica curiosità che con una botta di culo è riuscito a farsi mettere sotto contratto dall’etichetta degli Animal Collective, e ora vivacchia con dischi sempre meno convincenti. Ma non dimenticate che Panda Bear e compagni hanno la vista lunga: dove sarebbe oggi Ariel Pink senza di loro? Certo, in questo caso non siamo di fronte ad un innovatore, ma ce ne sono pochi in circolazione in grado di realizzare dei dischi di indie pop così piacevoli!
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[space height=”10″]The Dodos: Carrier
Nonostante i pareri decisamente discordi della critica sui loro ultimi due album (Time To Die e No Color), il duo di San Francisco va avanti per la sua strada, e va benissimo così: chi ha ascoltato Carrier ci assicura che ci troviamo di fronte al disco meno immediatamente accessibile, ma anche più arrangiato della loro carriera; da vecchio fan di Visiter, non posso che sbavare al pensiero delle melodie di Meric Long (un giovane Paul McCartney, almeno per quanto riguarda la voce) accompagnate da un arrangiamento d’archi come si deve.
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[space height=”10″]Franz Ferdinand: Right Thoughts, Right Words, Right Action
Quando ci si chiede se i Franz Ferdinand abbiano ancora qualcosa da dire, si tende a dimenticare che I quattro scozzesi nel 2005 sembravano il classico gruppetto inglese gonfiato dall’hype delle riviste specializzate, che sarebbe scomparso nel giro di qualche anno. Il fatto che siano riusciti a superare lo scoglio del “difficile terzo album” e che ora abbiano fatto aspettare i fan quattro anni per questo seguito, testimonia di una band che vuole fare le cose con cura, cercando di lasciare un segno al di là della funzione sostanzialmente ricreativa della loro musica. E poi diciamoci la verità: ormai hanno quarant’anni e a modo loro sono diventati un piccolo classico, come potete leggere nella nostra recensione!
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[space height=”10″]HBS (Ben Shepherd): In Deep Owl
Di tutti i Soundgarden, l’arcigno bassista Ben Shepherd è sempre stato quello in grado di portare le idee musicali più strane e interessanti: andate a riascoltarvi tracce come Head Down e Half , e poi ditemi se non preferireste un suo disco solista ad uno di Chris Cornell (ehm, ehm). Questo debutto sembrerebbe quindi partire con le migliori intenzioni, ma la verità è che Shepherd non è più quello di Superunknown, come dimostrano le sue tracce sull’ultimo, moscio King Animal: insomma, potrebbe trattarsi di un disco interessante o di una solenne ciofeca!
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[space height=”10″]The Julie Ruin: Run Fast
Sorvoliamo sull'orribile copertina qui a fianco e arriviamo dritti al punto: come si fa a non volere bene a Kathleen Hanna? L’ex riot grrrl torna finalmente alla musica a quasi dieci anni dall’ultimo disco dei Le Tigre, e ci sono tutti gli ingredienti per aspettarsi un ritorno col botto: una nuova band (che riprende un suo vecchio pseudonimo), la bassista delle Bikini Kill Kathi Wilcox ad affiancarla, e un sound molto più rock ed energico rispetto al passato recente, senza perdere però la carica positiva che da sempre la contraddistingue. Lunga vita alla riot queen!
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[space height=”10″]Neko Case: The Worse Things Get, the Harder I Fight, the Harder I Fight, the More I Love You
La rossa Neko ha beneficiato negli ultimi anni di una fama sempre crescente grazie al successo dei New Pornographers, ma anche in virtù di un paio di album solisti veramente azzeccati, in equilibrio tra il pop e l’alt-country. Ora questo album è il momento della verità: il precedente Middle Cyclone è arrivato al terzo posto della classifica americana, e tutti si attendono un disco in grado di arrivare al numero 1. Inutile dire che le prime recensioni parlano di un album assolutamente all'altezza della missione, con in più una vena intimista fino ad ora inedita, derivante da un periodo di depressione particolarmente duro. Insomma, la ragazza è tosta e merita: noi ovviamentente tifiamo per lei!
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[space height=”10″]Nine Inch Nails: Hesitation Marks
Avrei voluto dare un bel martini a questo ritorno di Trent Reznor e compagni, ma poi ho pensato: perché Trent ha deciso di ritirare fuori il glorioso marchio NIN, indelebilmente associato agli anni ’90? E come mai la grafica del nuovo disco riprende in maniera imbarazzante quella di The Downward Spiral, fino ad avere il titolo scritto con lo stesso identico font? Non sarà che Trent si è reso conto di avere qualche chance di sopravvivenza solo grazie all’effetto-nostalgia sui suoi vecchi fan ormai cresciuti? Insomma, nonostante mi faccia piacere sentire parlare di nuovo dei NIN, mi sarebbe sembrato più coerente continuare con il percorso che negli ultimi anni l’aveva visto evolvere e tentare un nuovo percorso musicale tra colonne sonore e il progetto How to destroy angels, invece di questa pseudo-reunion. Sia ben chiaro: tutto questo non ha niente a che vedere con la musica, che immagino possa ancora riservare qualche emozione, ma sarebbe triste vedere un Trent quasi cinquantenne impegnato a ripetere lo stesso copione di vent’anni fa.
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[space height=”10″]No Age: An Object
Il duo losangelino è una delle band più enigmatiche in attività nel panorama indie attuale: arrivati al quarto album, continuano ad avere il supporto di mamma Sub Pop, ma la loro formula noise delle origini si è ormai impoverita, oltre ad essere stata copiata (e migliorata) dai cloni Japandroids. Suvvia, un po’ di innovazione non vi farebbe male, altrimenti rischiamo di ricordarvi solo come l’unica band che si è ribellata allo strapotere commerciale della Converse!
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[space height=”10″]Okkervil River: The Silver Gymnasium
L’ultimo LP degli Okkervil River, I Am Very Far, era stato per me una mezza delusione: dopo l’impressionante crescita dimostrata dalla doppietta The Stage Names / The Stand-Ins, quel disco non sembrava in grado di reggersi da solo, senza un concept (possibilmente cervellotico) a sorreggerlo. Ecco perché ho invece un’ottima sensazione nei confronti di questo album: un intero disco dedicato a raccontare l’adolescenza dello sfigatissimo leader Will Sheff nella grande provincia americana sembra la ricetta ideale per un ottimo album degli OR, che sono ormai diventati un progetto quasi al confine tra musica e letteratura. E se non credete che sia una buona idea, provate a giocare a questo incredibile videogame…
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[space height=”10″]Superchunk: I Hate Music
Se non esistessero più i Superchunk, scomparirebbe uno dei tanti significati che associamo al termine “indie rock”. Il suo lato migliore, mi verrebbe da dire: quello delle chitarre rumorose e delle melodie assassine, dei tour nei pulmini scassati, della Merge Records che riesce a lanciare in tutto il mondo gli Arcade Fire senza sputtanarsi e degli ultraquarantenni che non ci pensano proprio a rinunciare alla loro passione, nonostante matrimoni, figli e divorzi. Come si non a non volergli bene?
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[space height=”10″]Vista Chino: Peace
Dietro a questo ridicolo nome si celano gli ex Kyuss John Garcia, Brant Bjork e Nick Oliveri, che qualche anno fa andavano in tour con il nome Kyuss Lives!, almeno fino a quando il buon Josh Homme non li ha spaventati a morte minacciando di far loro causa per appropriazione indebita del glorioso marchio stoner-rock. Lodevole l’iniziativa di registrare un album di nuove canzoni per un progetto che all’inizio era nato per pura nostalgia, ma dubito che ci sia ancora spazio per dire qualcosa in ambito stoner dopo tutti questi anni: it's time to move on…
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[space height=”10″]Volcano Choir: Repave
Justin Vernon può lasciare libero sfogo alle sue tendenze più ambient e post-rock in questo secondo album del suo side-project. Ma non era meglio un terzo album di Bon Iver?
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[space height=”10″]Washed Out: Paracosm
Dei due nomi principali di quello che qualche anno fa veniva chiamato chillwave, il progetto di Ernest Greene mi è sempre sembrato il meno interessante: laddove Toro Y Moi è riuscito comunque a dimostrare un talento non comune per gli arrangiamenti e per le atmosfere (generalmente soleggiate) anche sul suo ultimo LP, il primo disco dei Washed Out non mi aveva convinto, e dal vivo sono stati una delle esperienze più loffie che mi ricordi. Però questo album ha una copertina così bella, ed esce in un periodo talmente adatto alle allucinazioni da caldo estive, che sarei quasi disposto a dargli una chance: sbaglio?
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[space height=”10″]Weiss / Cameron / Hill: DRUMGASM
Supergruppo che mette insieme praticamente tre tra i migliori batteristi in circolazione: la fantastica Janet Weiss (Sleater-Kinney, Wild Flag), il veterano Matt Cameron (Soundgarden, Pearl Jam) e il teppista Zach Hill degli ultraviolenti Death Grips. Il risultato, da quello che ho capito, è un’unica traccia percussiva di 29 minuti, completamente strumentale: apprezzabili le intenzioni, ma siamo sicuri che ce la ascolteremo più di una volta? E soprattutto i supergruppi non li avevamo lasciati volentieri al lato oscuro degli anni ’70?