Degli Iceage si è cominciato a sentir parlare da poco: appena fuoriusciti dagli anni tremendi dell'adolescenza, hanno pubblicato il loro primo album, New Brigade, nel 2011, sollevando immediatamente l'interesse della critica nonché del pubblico. Pitchfork si sbilanciò assegnando loro il bollino Best New Music e dichiarando: "Questi quattro hanno individuato il punto debole del punk-rock: mixare le atmosfere oscure del goth, il sound più selvaggio dell'hardcore, e il clangore del post-punk. E' una caratteristica, questa, resa del tutto più efficace da qualcos'altro di assolutamente intangibile: l'energia". Con l'uscita del secondo album You're Nothing a febbraio di quest'anno le lodi si sono ripetute: "Gli Iceage scrivono canzoni eccezionali; con You're Nothing, hanno trovato un modo di perfezionare le loro abilità compositive senza privarle dell'energia", ha commentato l'autorevole sito americano.
L'energia. Davvero, l'energia è proprio ciò che mi ha incuriosito sin da subito ascoltando la musica di questi quattro ragazzi danesi, una sorta di misura del disordine di ciò che il punk è sempre stato e che – tirando il fiato con l'entusiasmo che si può avere passati i trent'anni, e consapevoli del disagio sociale in cui ha sempre messo radici – si vorrebbe torni ad essere: disagio trasformato in energia, appunto. Una forma di entropia.
Penso a tutte queste cose mentre cammino per i fatti miei lungo l'Alzaia del Naviglio Grande milanese, sulla destra muri sporchi di graffiti più o meno significativi, sulla sinistra ciò che fu della darsena, ora ridotta a una pozza di detriti prosciugati nel fango. Il nuovo Rocket è suo malgrado un posto che sta cercando di acquisire un nuovo volto, una nuova personalità: se già la sede in via Pezzotti regalava asfissia, questo ex-capannone industriale la cui zona parcheggio supera lo spazio interno calpestabile non promette molto di diverso. Mi faccio strada lungo una serie di transenne che delimitano il percorso fino all'entrata del locale, vietando l'accesso al nulla che ci circonda. Il pubblico è giovane, cool, benvestito, mediamente ventenne, e sorseggia pigramente bevande ghiacciate con cannuccia, per lo più stazionando in piedi lungo la via transennata. Non sono l'unica a pensare che la sensazione è quella di stare al pascolo. Qualcuno commenta: "Mah non so.. questo posto.. non mi piace. non c'è.. non c'è situa". Entro ed esco dal locale, che si riduce a un corridoio provvisto di ampi specchi e piccoli divanetti disposti a tetris nei pochi metri quadri rimasti, in cui bivaccano altri ragazzi in attesa. Ormai lì da mezz'ora, vado a sedermi all'aperto sull'unico tratto di marciapiede fruibile. Sopraggiungono in due, stanchi anche loro e con ancora meno riserve: "Ma quando suonano questi? Uffa basta mi son stancato.. già siamo in un locale di m**** con gente di m****, la birra costa pure troppo.. voglio solo sentire gli Iceage!" Quando si alzano per incamminarsi verso l'entrata, trattengo un mezzo sorriso per finire la mia sigaretta, e decido di entrare anch'io.
Sotto il palco il pubblico è compatto, le luci roteano e si proiettano a intermittenza: A Rifle già suona per metà, faccio appena in tempo a inserirmi nelle prime file che parte Awake, poi Burning Hand, e in men che non si dica il pubblico è scatenato, balla, poga, è addosso a Elias Bender Rønnenfelt, il frontman, di cui vedo sparire e riapparire il caschetto bruno nell'orda di fan che lo circonda. Indossa un lungo cappotto grigio, non riesco a non pensare al cappottone rosso in cui era avvolto fino ai piedi John Lydon durante il live dei Public Image Ltd. all'Old Grey Whistle Test, nel 1980.
All'attacco di Rodfæstet mi accorgo di un tipo con la testa rasata che incita le folle al pandemonio. Skinhead? Mah, ha un orecchino sbriluccicante su un lobo solo, un giubbotto firmato, scarpe da tennis alla moda. A un certo punto si appoggia stanco a una colonna, quando parte Beaver, e ci rimane quasi fino alla fine di Langsom. Elias intanto si è tolto il cappotto restando in camicia, abbottonata quasi fino al collo, suda e si dimena sul palco come se ognuna delle parole che canta gli procurasse una gran pena di vivere. A sorpresa arriva la cover della bellissima To The Comrades dei Bahumutsi Drama Group, che passa però quasi inosservata. Il picco definitivo invece arriva con You're Nothing, eseguita alla svelta e in un'esplosione di entusiasmo generale: la gente si accalca, le dita si alzano nel ritornello, sono tutti intorno a Elias. A gran velocità si susseguono Coalition, Dance Nummeret, Morals ed Ecstasy, e poi, improvvisamente, il frontman scende dal palco e se ne va. Così, senza dire niente. Anche gli altri tre membri abbandonano in fretta gli strumenti e si volatilizzano, a poco a poco la sala si svuota.
Restiamo io e il tizio con la testa rasata a dire "We want more!", ma mi rendo presto conto di quanto è buffa la situazione. Mi avvicino al tecnico del suono, un ragazzo con la felpa di lana blu e gli occhiali con la montatura nera, lasciato lì da solo a staccare le prese e arrotolare i cavi. Gli chiedo se hanno già finito, così, all'improvviso, se posso scambiare due parole con la band. Mi sorride: "Ma io non faccio parte della band" – "Ok allora dove diavolo è finita la band?" – ride. "Mah, saranno tutti fuori" e indica l'uscita. Fuori c'è calca, i buttafuori lanciano occhiate da cane pastore, accompagnano gentilmente verso le scale solo col gesto di una mano. Mi fermo a salutare qualcuno che conosco, e intravvedo Elias che sguiscia controcorrente verso il bar. Lo seguo, non lo seguo? Decido di aspettare fuori per un po'. La fiumana di persone non accenna a diminuire, nel frattempo ne entrano altre arrivate lì unicamente per il dj-set.
Quando sono ormai lì lì per lasciar perdere, ecco un ragazzo con un cappottone grigio buttato sulle spalle che scende dalla scalinata con fare dinoccolato. I capelli sudati appiccicati alla fronte, una sigaretta in mezzo ai denti. Lo fermo, noto che ha una piccola fede d'argento all'anulare: "Ciao, ti posso fare qualche domanda?". Mi guarda vacuo, come perso nel suo vuoto, con un misto di timore e lusinga, fa in tempo a costruirsi un distacco approssimativo, ci pensa un attimo. "Mmm no, preferirei di no." Ma non se ne va, non si allontana, per cui insisto; nel frattempo però mi raggiungono un ragazzo e una ragazza, vogliono fargli i complimenti, stringono la mano a un altro membro della band (è il chitarrista Johan Wieth), comparso ora dal nulla, in t-shirt bianca e capelli all'indietro anni '90, che invece sorride e si lascia lusingare, chiede il nome della ragazza, scherza con altra gente. Ben presto mi ritrovo con uno smartphone in mano, i due vogliono una foto con Elias. Avverto il suo disagio, ora che ho il telefono di qualcun altro in mano mi sento in parte responsabile. "Uhm ok, ti dispiace?" gli chiedo. Lui accetta senza entusiasmo di farsi fotografare. Si mette in posa annoiato. "Hey sorridi.. o almeno provaci.." – scherzo, sentendomi come la mamma rompiballe di un sedicenne a cui non piace il maglioncino che le ha fatto per Natale. Accenna un finto sorriso un po' meccanico, ma quando faccio clic è ormai troppo tardi, è già scomparso. "Hey un'ultima domanda.. Perché non avete suonato Jackie O?" – "Scusa devo andare, dobbiamo caricare il furgone.."
I due mi ringraziano, lo giustificano spiegandomi che sarà stato stanco, dovranno essere a Bologna il giorno dopo. E io comunque non so fare maglioncini.