Il mio primo anno al Primavera Sound pare sia coinciso con l’edizione più fredda e meteorologicamente sfigata nella storia del festival: in modo simile a quanto è successo in Italia negli stessi giorni, anche in Spagna il mese di maggio è stato eccezionalmente piovoso e freddo, e per tutti i cinque giorni della rassegna un vento gelido ha flagellato gli spettatori accorsi da tutta Europa con la speranza sì di ascoltare tutte le migliori band in circolazione, ma anche di fare un po’ di vacanza. Le temperature spesso e volentieri sotto i dieci gradi (anche in pieno giorno) fortunatamente non hanno portato la pioggia, anche se c’è da dire che il Parc del Forum (una location industrial-portuale alquanto brutta e dispersiva, niente a che vedere con le collinette verdeggianti del Parque da Cidade che avevamo visto l'anno scorso durante il festival "gemello" di Porto) avrebbe retto tranquillamente anche se avesse diluviato per cinque giorni, senza scene di combattimenti nel fango in stile Glastonbury.
La prima conseguenza di questo tempo inclemente è stata che le distrazioni dalla musica sono state veramente poche: l’unico motivo per cui anche alle tre di notte ci si metteva in fila come bestie al pascolo per transumare dal palco Primavera a quello Heineken (i due palchi più importanti, sadicamente posti alle estremità del Parc del Forum) era perché si sperava di poter veramente assistere a qualche performance epocale, di quegli artisti che l’Italia spesso la snobbano completamente. Insomma, un festival mai come quest’anno rivolto agli amanti della musica, anche perché chi era venuto solo per fare caciara (i soliti gruppi di inglesi ubriachi, principalmente) si è presto trovato assiderato con la sua camicia hawaiana e le infradito.
Il Primavera è così rimasto fedele alla sua natura anche di fronte al numero sempre crescence di visitatori (170.000 persone quest’anno, quasi 30.000 in più del 2012) e ai nuovi grandi sponsor (Heineken in primis) che, fiutando il business, hanno occupato in modo quasi militare l’intera area concerti. Delle tre giornate più “pesanti” dal punto di vista del palinsesto (giovedì, venerdì e sabato) ci siamo purtroppo persi quasi completamente la prima, ma ecco cosa siamo riusciti a vedere!
Giovedi' 23 maggio
Animal Collective
Arriviamo a Barcellona intorno a mezzanotte e subito ci dirigiamo con i bagagli in mano al Parc del Forum: rispetto a Porto impossibile non notare i cumuli di bicchieri di plastica che rimangono per terra, nonché l’odore veramente inquietante (a metà tra la discarica e le alghe marcie) che aleggia in alcune parti della location. Entriamo nel recinto e nel tempo che impieghiamo ad attraversare tutta l’area per arrivare al palco Heineken hanno già quasi smesso di suonare i Phoenix. Ciononostante abbiamo modo di apprezzare come Thomas Mars e compagni ormai si siano calati con facilità nei loro nuovi panni di superstar: le noioserie dell’ultimo album Bankrupt! risultano molto più muscolari e coinvolgenti dal vivo, perdendo la patina elettronica più superficiale. E poi quando tirano fuori l’asso dalla manica (in questo caso ovviamente Lisztomania) la platea oceanica è tutta per loro. Bravi. (Voto: 7,5)
Subito dopo ( e sono già le 2 passate) ci trasferiamo nel più raccolto palco Pitchfork (il mio preferito, anche se sovrastato da un’enorme traliccio di cemento che sembrava sempre sul punto di cadere addosso agli spettatori) per ascoltare il live di Four Tet. Cosa dire, se si è visto Kieran Hebden dal vivo una volta, si sa già cosa aspettarsi: quello che gli manca in presenza scenica viene ampiamente compensato dalla sua capacità veramente incredibile di riuscire a far ballare il pubblico senza ricorrere agli elementi più abusati della musica elettronica. Pochi i brani riconoscibili in un set di rara intelligenza, che comunque non sembra aver scontentato chi sotto al palco si agitava come fosse al Cocoricò dei bei tempi andati (Voto: 7)
Chiudiamo questa brevissima (per noi!) prima giornata con gli Animal Collective, che verso le 3 salgono sul palco Primavera con la loro solita coloratissima scenografia gonfiabile: come avevamo osservato al Pitchfork Festival di Parigi, i quattro di Baltimora sembrano aver intuito che Centipede Hz è stato un mezzo buco nell’acqua, e pertanto ne riprongono solo i brani migliori (Applesauce, Today’s Supernatural, Wide Eyed, Pulleys e pochi altri). Inutile dire che il set migliora mano a mano che si procede, così come la presenza scenica dei quattro, che all’inizio sono rigidamente incollati alle loro postazioni ma verso la fine si convincono finalmente ad interagire tra di loro e con il pubblico. Tuttavia gli AC rimangono uno di quei gruppi che è meglio ascoltare in cameretta (possibilmente con delle belle cuffie) invece che negli spazi enormi di un festival insieme a migliaia di altre persone: tra un noioso intermezzo strumentale e l'altro per fortuna ci pensa un'entusiasmante My Girls a risvegliare un po’ tutti, anche se What Would I Want? Sky è stato un ripescaggio ancora più gradito. (Voto: 6)
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Venerdi' 24 maggio
Kurt Vile & the Violators
La nostra seconda giornata di festival inizia prestissimo, considerando che siamo andati a letto alle 6 di mattina e che faremo il bis in giornata: alle 18 siamo già sotto il palco Heineken per ascoltare il concerto di Kurt Vile, lanciatissimo dopo l’uscita dell’ultimo Wakin On A Pretty Daze. La scelta di farlo esibire in orario aperitivo si rivela decisamente azzeccata: mentre attacca con i dieci minuti sonnolenti della title-track mi rendo conto che il cantautore di Philadelphia fa musica squisitamente pomeridiana, vale a dire non abbastanza energica da essere ascoltata al mattino e non abbastanza festaiola per la sera. Mentre intorno a me c’è chi dà fondo alle riserve di sostanze più o meno illecite acquistate sul posto, Kurt sciorina una serie di brani impeccabili vecchi e nuovi, sostenuto dal ritmo incalzante dei suoi Violators. Quando poi imbraccia l’acustica per suonare da solo una splendida Peeping Tomboy è impossibile non ammirare la facilità con la quale si misura con i diversi registri della tradizione rock. Avercene di “semplici cantautori” come lui… (Voto: 8)
Ci spostiamo al chiuso, nell’atmosfera intima dell’Auditorium Rockdelux per seguire il concerto di Daniel Johnston. Non avendo mai visto il celebre (e tormentato) cantautore di Austin, non sapevo cosa aspettarmi: appoggiandosi all’inseparabile leggio e tremando copiosamente Daniel si è fatto accompagnare da un trio di ragazzini che sembravano appena usciti dal liceo, e hanno dato l’impressione spesso e volentieri di non aver passato abbastanza tempo in sala prove (o forse era solo Daniel che li mandava fuori tempo con la sua esibizione molto “free"…). Tra alti e bassi (compreso qualche pezzo cantato “a cappella” dal solo Daniel perché i tre pischelli non li sapevano suonare) c’è stato comunque spazio per brani indimenticabili come Don’t Let the Sun Go Down on Your Grievance e True Love Will Find You in the End, le cui melodie mettono definitivamente a tacere la domanda che da sempre circonda l’opera di Johnston: avrebbero lo stesso valore se l’autore non fosse tristemente noto per i suoi problemi mentali? Ovviamente sì, e poi vedere l’emozione vera sul volto di Daniel mentre canta è una di quelle cose che non si dimenticano facilmente (Voto: 7).
Usciamo dall’Auditorium e ci spostiamo di nuovo al palco Heineken per un assaggio del concerto dei Django Django: gli scozzesi dal vivo si rivelano assai più coinvolgenti rispetto al disco, smorzando le tendenze elettroniche in stile Hot Chip mostrate sull'LP e affidandosi ad una new wave ballerina molto apprezzata dal pubblico. Non vediamo per intero il loro set, ma Wor è già diventato uno dei miei pezzi preferiti. Punti bonus per i loro completi coordinati in plastica bianca: l’impressione era come se si fossero messi addosso una tovaglia cerata da tavola… (Voto: 7,5)
Lasciamo a metà i Django Django per correre al palco Primavera, dove le Breeders attaccano il primo accordo di New Year mentre stiamo ancora arrivando. Sappiamo già cosa aspettarci: Kim Deal e le altre riproducono in fila tutti i brani del loro insuperabile Last Splash, con una resa sonora sorprendentemente fedele per un disco uscito vent’anni fa. Non tutti i brani funzionano (Cannonball continua a rendere meglio nella versione in studio, così come i brani più sperimentali come Roi e Mad Lucas), ma la nostalgia mi assale e mi ritrovo ben presto a cantare la romantica Do You Love Me Now?, per poi arrendermi definitivamente alla melodia irresistibile di Divine Hammer. Nei bis c’è spazio per qualche B-side, ma anche per Safari e una sorprendente versione di Don’t Call Home, in grado di scaldare il cuore di qualunque amante degli anni ’90. (Voto: 7).
A seguire ci spostiamo nel più raccolto palco Pitchfork per vedere i Local Natives. Una vera sorpresa la band di Kelcey Ayer e Taylor Rice: ce li ricordavamo piacevoli ma molto acerbi nei live ai tempi di Gorilla Manor, ora si sono trasformati in dei veri performer e non hanno sbagliato un colpo nel corso della loro breve esibizione di circa un’ora. Una scaletta praticamente perfetta (che ha privilegiato i brani più movimenti dell’ultimo Hummingbird, lasciando da parte i pezzi più lenti) ha dato modo di apprezzare gli stupefacenti intrecci vocali del gruppo e il grande lavoro del batterista Matt Frazier. A mio parere la migliore performance del Primavera, un gruppo in stato di grazia e che sul palco diverte e si diverte, qualcosa che band più blasonate come gli Animal Collective dovrebbero tenere a mente (Voto: 8,5).
Arriva il momento dei Blur, gli ospiti forse più attesi dell’intera kermesse. La gente si accalca sotto al palco già un’ora prima dell’inizio dello show, tanto che gli organizzatori pensano bene di far esibire i Wedding Present come gruppo di supporto a sorpresa: il risultato è che gran parte del pubblico gli ignora mentre suonano sulla terrazza riservata alla stampa. Per quanto mi riguarda è stato un momento divertente ma abbastanza innocuo: poche canzoni, tutte simili una all’altra e che non hanno fatto altro che far salire l’attesa per Damon Albarn e compagni (Voto: 6).
Qui necessariamente la distanza critica viene meno: non vi so dire se l’esibizione dei Blur sia stata più o meno sentita di mille altre, più o meno suonata bene, l’impressione è stata quella di quattro professionisti ormai abbastanza distaccati da quello che fanno. Quello che so è che TUTTI dovrebbero vivere almeno una volta nella vita l’esperienza di sentire l’onda d’eccitazione del pubblico quando parte (come primo pezzo!) la base di Girls & Boys. E idem dicasi per una buona manciata di canzoni assolutamente imprescindibili (Parklife, Country House, The Universal, Beetlebum, This Is A Low e , sì, anche Song 2), a cui si mischiano curiosi ripescaggi da 13 come Trimm Trabb e Caramel (non proprio le canzoni più adatte ad essere suonate davanti ad una platea oceanica di questo genere). Il tutto, a mio parere, tocca il suo momento più alto con il coro di Tender cantato a squarciagola da tutti i presenti: un momento di rara catarsi, in cui ho visto gente sconosciuta abbracciarsi e sorridere, insomma la reazione che vorremmo avere ogni volta che ascoltiamo musica dal vivo (Voto: 8).
Grande delusione invece per il teatrino dell’assurdo messo in scena dai The Knife sul palco Primavera: ci aspettavamo un’esperienza audiovisiva sul livello del tour di Silent Shout, invece per un’ora e mezza vediamo gente vestita in maniera ridicola ballare (male) sul palco mentre dal mixer ci fanno ascoltare le tracce del nuovo cd Shaking the Habitual. E non venitemi a parlare di provocazione: lo spettacolo dei The Knife è il contrario di quello che dovrebbe essere un qualsiasi evento dal vivo, un’operazione pigra e furba studiata a tavolino per riscuotere comunque gli applausi degli hipster preoccupati di non capire questa nuova trovata. Speriamo non facciano proseliti… (Voto: 4)
Mentre ormai stiamo morendo di freddo e sonno, ci trasciniamo lentamente verso il dj set di Daphni: tenendo fede all’impostazione danzereccia del progetto, Dan Snaith fa ballare il pubblico partendo dagli stessi suoni usati dal suo amico Four Tet, ma con meno congetture intellettuali e più voglia di divertirsi. Bravo, ma ora andiamo a dormire! (Voto: 7,5).
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Sabato 25 maggio
Camera Obscura
Dopo la full immersion del giorno precedente, decidiamo di prendercela un po’ più comoda in questo ultimo giorno di festival: arriviamo già sul tardi verso le 20:30 e come prima cosa riusciamo a vedere parte dell’esibizione di Mac DeMarco. Il giovane cantautore canadese si conferma esattamente come me l’aspettavo: divertente, sicuramente dotato per quanto riguarda voce e canzoni, ma anche irrimediabilmente cazzone. Tra una goliardata e l’altra (come quando annuncia che il suo bassista “tra nove mesi diventerà papà”) la sua esibizione non lascia traccia, anche se per l'orario dell'aperitivo le sue canzoncine semi-serie sono sicuramente piacevoli. (Voto: 6)
Le sovrapposizioni dei palchi a questo punto ci obbligano a scegliere tra i Camera Obscura e Nick Cave: non senza fatica vincono i primi, fondamentalmente per il semplice motivo che Cave l'ho già visto dal vivo un tot di volte, mentre non capita tutti i giorni di poter assistere ad un concerto dei cinque di Glasgow. Mentre aspettiamo l'inizio dello show passiamo per un attimo davanti al palco dove suonano i Dead Can Dance. Business as usual per la reunion del duo: Lisa Gerrard è vestita come una sacerdotessa pagana, e le atmosfere guardano più verso oriente che verso la loro caratteristica miscela dark-New Age. Confermo quello che ho sempre pensato: non sono esattamente il mio genere, ma nessuno è come loro (Voto: 6,5).
Finalmente arriva il momento dei Camera Obscura sul Ray-Ban stage: a differenza di quanto si poteva immaginare il contemporaneo concerto di Nick Cave non ha impedito ad un nutrito drappello di fan dell’indie pop (che se non lo sapevate va fortissimo in Spagna!) di venire a cantare insieme a Tracyanne Campbell. Si presentano sul palco in tanti (ne ho contati sette), ma l’attenzione è tutta per Tracyanne e la tastierista Carey Lander, che sfoggia un look retrò in stile segretaria di Mad Men. Il set è un vero greatest hits che sembra pensato apposta per i fan di lungo corso: solo tre brani dal nuovo Desire Lines, French Navy e Swans da My Maudlin Career e gran parte dei pezzi di Let’s Get Out of This Country, un disco ormai vecchio di sette anni ma che rimane probabilmente il loro momento migliore. Sicuramente ci sarà chi sarà annoiato dalle loro svenevoli pop song, ma a me sono sembrati irresistibili: melodie indimenticabili una dietro l’altra e un’attitudine da anti-divi che li fa risultare immediatamente simpatici. “L’ultima volta che abbiamo suonato al Primavera era dodici anni fa”, ha ricordato Tracyanne ed è incredibile pensare che una band così poco attenta alle mode passeggere possa ormai contare su una carriera così lunga. Unico rimpianto della serata: l’intero set è stato incentrato sui pezzi più allegri e ballerini del loro repertorio, senza nessuna puntata nel territorio che è la loro arma segreta, quello delle ballate lentissime e tristissime. Peccato, ma anche in versione "estiva" mi hanno convinto. (Voto: 8)
E’ arrivato quello che da me era atteso come il gran finale: ci spostiamo di nuovo al palco Heineken per prepararci a vedere il concerto dei My Bloody Valentine. Mentre percorriamo per l’ultima volta la camminata tra i palchi, ci fermiamo per un po’ al palco ATP per ascoltare Phosphorescent: nonostante l’apprezzamento di Pitchfork, a me è sembrato un cantautore con poco da dire, e inoltre quel poco lo esprime secondo gli stilemi triti e ritriti del rock e country americano più tradizionale. Sembra di ascoltare gli ultimi Band of Horses (che erano previsti al festival ma purtroppo sono rimasti bloccati negli Stati Uniti dal tornado in Oklahoma) ma ancora più mosci e scontati: quello che resta sono grandi aperture di organo Hammond e una voce a metà tra Will Oldham e un camionista rimasto senza benzina sulla Route 66. (Voto: 5)
Eccomi finalmente sotto al palco dei My Bloody Valentine. Kevin Shields e compagni si presentano preceduti innanzitutto dalla mitologia che ormai si è sviluppata intorno ai loro show: i tappi per le orecchie, le code noise da 15 minuti, i brani di Loveless finalmente suonati dal vivo. Inutile dire che l’emozione quando attaccano con I Only Said è enorme: nonostante siano passati più di vent'anni pochi gruppi riescono a replicare dal vivo suoni del genere e per un attimo sembra tutto perfetto. Poi Shields si avvicina al microfono e … non si sente niente? Non intendo il caratteristico sound MBV con la voce “impastata” all’interno della musica, in questo caso l’impressione era proprio quella di un microfono staccato e di uno Shields che cantava per sè stesso, senza preoccuparsi del risultato finale che usciva dalle casse. Pensavo che il problema sarebbe stato risolto dal mixerista in pochi minuti, invece l’intero concerto è andato così: solo nei pezzi cantati dalla carinissima Bilinda Butcher (che donna e che classe, signori!) si riusciva a sentire qualcosa, mentre l’intera performance vocale di Shields è andata alle ortiche. Come detto prima per i The Knife, è incredibile che nessuno si sia accorto di niente (a parte lo stesso Shields, che sul palco è apparso insolitamente nervoso per i problemi tecnici): la sensazione in questi casi è quella di un pubblico sempre più acritico (o disinteressato) nei confronti della musica, che non alza la voce per protestare solo perché ha paura di essere etichettato come “quello che non capisce la poetica del gruppo” e perciò di risultare meno hip.
E’ stato comunque un concerto di enorme intensità: il muro di suono delle chitarre è riuscito a replicare in maniera credibile le texture di Loveless e dell’ultimo mbv e la band è stata eccellente. Su tutti darei una nota di merito al batterista Colm O’Closoig, che ha trascinato con ritmi forsennati i brani più scatenati tratti da Isn’t Anything come You Never Should e Feed Me with Your Kiss. Eccezionali i pezzi suonati sul finale, in particolare una To Here Knows When ancora più eterea della versione su disco, accompagnata da un’affascinante scenografia piena di luci tremolanti. Il ritmo quasi ballabile di Soon ci ha trascinati come in trance fino al gran finale di You Made Me Realise. Mi ero preparato per l’occasione, ed ecco che dopo qualche minuto Shields e compagni sono entrati nella Armageddon Section, i 15 minuti di rumore estremo che sono diventati ormai il marchio di fabbrica di ogni concerto dei MBV che si rispetti. Scattano i tappi per le orecchie e mai scelta si rivelò più adeguata: filtrate dal lattice, le onde di suono che si propagano dal palco non vengono percepite come urticanti e fastidiose, ma fanno entrare in vibrazione l'intero corpo di chi ascolta. In poche parole: un’esperienza unica, da vivere ad occhi chiusi e staccando il pensiero da qualsiasi cosa, uno di quei momenti in cui ti dimentichi chi sei e cosa stai facendo, ed uscirne alla fine non è stato semplice. (Voto: 8, a parte i problemi con le voci di cui sopra).
Con questo momento di pura estasi trascendentale finisce il nostro Primavera: è il momento di incolonnarsi di nuovo con il pubblico e uscire dall’area concerti, diretti verso casa. Qualche ora prima gli organizzatori hanno già annunciato l’headliner dell’anno prossimo: i Neutral Milk Hotel, che da soli sicuramente saranno in grado di farci comprare di nuovo il biglietto, passando oltre le obiettive difficoltà di questa edizione (il freddo, la sporcizia, la location non proprio affascinante).
L'insegna luminosa all'uscita ci saluta per l'ultima volta, ed è già tempo di bilanci: "best festival ever", come ha martellato la macchina promozionale fin dall'annuncio della lineup a gennaio? L'impressione è che ci si sia andati molto vicini: in Europa non esiste un altro evento capace di muovere una simile macchina organizzativa e promozionale senza diminuire la qualità della musica proposta. Arriveranno probabilmente tempi difficili per il Primavera, dal momento che la Heineken farà sempre più pesare la sua sponsorizzazione: già quest'anno il livello di volantini e gadget promozionali che giravano nella giornata di sabato era abbondantemente oltre il livello di guardia, e l'accoppiata tra musica indipendente e sponsorizzazione massiccia in alcuni momenti mi è risultata un po' indigesta. Tuttavia non c'è dubbio che (almeno per ora) la musica di qualità resti al centro della proposta di questa isola felice (e del festival "gemello" di Porto), un luogo nel quale senza andare troppo lontani da casa ci si può finalmente sentire al centro di un evento culturale internazionale, ma senza l'odioso pressapochismo dei festival inglesi. See you next year in Barcelona!
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