Il quintetto scozzese mette in sordina le chitarre e spinge su suoni piu' sintetici: il risultato e' un disco di passaggio che ci conduce verso nuovi orizzonti del loro post-rock.7/10Uscita: 20 gennaio 2014 Rock Action Records Compralo su Amazon: Audio CD | Vinile |
L’inizio del 2014 è segnato dalla prova numero otto dei Mogwai, veterani del post-rock saliti alla ribalta ormai diciassette anni fa con Young Team, pietra miliare del genere che ha avuto Tortoise, Godspeed You! Black Emperor e, in Italia, Giardini di Mirò come validi sostenitori ed esponenti. Spesso si pensa al post-rock come ad un filone consumato nel giro di un decennio, ma ascoltando il nuovo della band scozzese sembra che ci sia più di qualcosa ancora da dire; inoltre in questi anni Stuart Brathwaite e compagni sono rimasti costantemente ed in modo discreto sulla scena, continuando a proporre nuovi lavori: chi non li conosce e, almeno una volta, non ha ascoltato un loro brano?
Probabilmente la forza della band sta proprio nel mescolare sonorità che travalicano dalla tipica e attendibile schitarrata gonfia di delay e reverb. Così, in quest’ultimo album è possibile distinguere suoni elettronici, synth distorti – come in Simon Ferocious – che fanno da sostegno alle complesse armonie e agli innesti melodici del gruppo. L’apertura è affidata a Heard About You Last Night, dalle note malinconiche e aggraziate in tipico mood mogwaiano. A seguire Remurdered, tanto docile all’inizio quanto aggressiva e prorompente nel suo successivo evolversi, conferma la capacità di rinnovamento sonoro dei Mogwai, che vanno oltre le regole non scritte del loro genere.
L’approccio a Hexon Bogon, il brano più breve del disco, sembra essere anche il più semplice e diretto: chitarre distorte e ritmo veloce e senza pretese, come a rievocare le tracce più semplici del loro Mr. Beast del 2006, scrollandosi di dosso le atmosfere fin qui delineate. A seguire Repelish e Deesh, potrebbero essere considerate il “ponte modulante”, la virata sonora di Brathwaite e dei suoi: un passaggio dal registro post ad un nuovo modo di comunicare tramite sapienti incastri di arpeggi e dinamiche saggiamente dosate.
Fanno capolino inedite atmosfere math rock nell’incipit di Master Card: chitarre spezzate e graffianti debitrici della scena di Chicago immortalata in tante produzioni di Steve Albini. Sembra qui crearsi una sinestesia tra il titolo, che rappresenta il sistema capitalistico, e un genere – il math-rock – che, come accade per il miglior rock, contesta l’opprimente apparato economico. A concludere, inteso come “chiudere assieme”, il percorso sono due perle: Blues Hour e The Lord Is Out Of Control, inframmezzate dal carillon di No Medicine For Regret. Il primo brano, caratterizzato da un pianoforte, gioca ad inseguirsi con la voce in un andirivieni di spunti melodici che si dissolvono in un climax impetuoso ma quanto mai dosato. Il brano di chiusura invece, scelto anche come primo singolo, mette la voce filtrata da un vocoder in primo piano: si dissolverà, in seguito, risucchiata dalle chitarre e dalla sezione elettronica. Sarebbe facile aspettarsi un’inondazione totale come nelle esplosioni di Mogwai Fear Satan e We're No Here, ma l'attesa si dissolve e con esso anche il disco, che ci lascia in una dimensione di eterea sospensione.
Rave Tapes si pone come prosecuzione dell’ineccepibile lavoro degli scozzesi, mostrando la capacità di proporre materiale originale e al tempo stesso in linea con la poetica sviluppata in questi anni. Tuttavia, per apprezzare la loro proposta la dimensione live rimane quella da preferire: li ho visti durante un’edizione all'Ypsigrock di Castelbuono, e ricordo ancora bene il loro suono compatto, chiaro e uniforme, caratterizzato da un’incredibile precisione tecnica ma allo stesso tempo capace di "spettinare" tutti i presenti. Il miglior complimento che si può fare a Rave Tapes è di tenere alto il nome di una band ormai avviata verso il ventennale, senza particolari sorprese ma con una qualità diffusa veramente invidiabile per molte formazioni più giovani.