Non mi capita spesso di fare centinaia di km per andare a vedere un concerto senza sapere bene cosa mi aspetta. In fondo St. Vincent, si sa, non è mica una tipa prevedibile e avrei forse dovuto studiare almeno un po’ i suoi live precedenti. Ma è novembre, è la settimana più grigia dell’anno cosi decido all’ultimo momento e arrivo all’Alcatraz addirittura prima dell’apertura delle porte, giusto in tempo per prendermi ulteriori gocce di pioggia.
Ad aprire ci sono i Coves, gruppo indie inglese. Dopo un paio di canzoni molto distorte ma poco entusiasmanti mi sembra di capire che la bionda cantante stia cercando di imitare un po’ troppo Florence Welch, senza avere né lo stile né soprattutto la voce. Per fortuna finiscono presto e restiamo tutti in attesa a fissare una struttura bianca a forma di scala, in cima alla quale c’è un microfono. Per qualche secondo penso che St. Vincent si esibirà tutta la sera cantando da quel microfono sopraelevato, in una sorta di folle mania di grandezza, per la gioia di noi spettatori bassi.
In perfetto orario finalmente arriva. E’ lei, Annie Clark, arty e folle, con una minigonna a vita alta, una camicetta barocca e i capelli bianchi da pazza, esattamente come me l’aspettavo. Il concerto inizia alla grande con Rattlesnake, primo brano di una lunga serie tratta dall’ultimo disco St. Vincent.
Lo show, perché è di questo che si tratta, appare fin dall’inizio coinvolgente e ricco di groove. Le successive Digital Witness e Cruel creano una tripletta d’apertura micidiale e perfetta che fa scatenare il pubblico tra percussioni e ottoni. Annie poi interpreta una convincente Marrow che ci riporta alle atmosfere del suo secondo album Actor, e riappare per un momento la fanciulla più stravagante dei primi tempi.
Più che a un concerto mi sembra di assistere a una performance artistica: al centro dell’attenzione c’è ovviamente lei, St. Vincent, che nonostante le calze rotte e i sorrisi che ogni tanto regala al pubblico non sembra una persona umana. A rafforzare le atmosfere alienanti ci sono le coreografie robotiche che coinvolgono anche l’elegante tastierista e tutti gli altri componenti della band. Annie è bella di una bellezza eterea, sembra fuori dal mondo, e mentre la vediamo ballare, salire sulla piattaforma bianca e poi distendersi e piegarsi e contorcersi lungo i gradini non riusciamo a smettere di stare lì fermi a guardare quello che succede, lasciandoci coinvolgere da un mondo bizzarro e "altro", in cui lei è l’unica attrice.
Solo ogni tanto riesco a soffermarmi e a pensare a quanto è fantastica la sua voce, mai una nota fuori posto o una piccola imperfezione: non c’è alcuna differenza tra la versione live e quella incisa in disco. Forse è proprio questo che mi lascia un po’ perplessa: i suoi movimenti teatrali e la perfezione con cui ogni canzone viene interpretata mi incantano ma non riesco a cogliere nessuna emozione in quello che fa.
Per fortuna poi arrivano pezzi come Actor Out of Work o Huey Newton nei quali Annie imbraccia la chitarra elettrica perdendosi tra le distorsioni, e mi sento rapire dalla sua musica. Nonostante il successo dell’ultimo disco infatti sono i brani più vecchi quelli in cui la Clark si lascia andare, dimentica per un attimo di essere un’attrice al centro del suo spettacolo e torna ad essere la musicista fantastica che è, e alle persone attorno a me si accendono gli occhi.
Anche il finale è affidato a un brano vecchio: una lunghissima versione di Your Lips Are Red, tratto dall'esordio Marry Me, distorta e splendida. Annie ci regala un’interpretazione finalmente emozionante, e quando le luci dell’Alcatraz si accendono me ne torno alla pioggia milanese un po’ più felice di prima, con la sensazione di essere stata via per tanto tempo, in un mondo lontano e bizzarro.
Rattlesnake
Digital Witness
Cruel
Marrow
Every Tear Disappears
I Prefer Your Love
Actor Out of Work
Regret
Pieta
Surgeon
Cheerleader
Prince Johnny
Birth in Reverse
Huey Newton
Bring Me Your Loves
Encore:
Severed Crossed Fingers
Your Lips Are Red