Bologna, Via Stalingrado. Svoltando a destra a un certo punto ci si addentra, nel buio più pesto, per un sentierino cementato solo a toppe, per il resto sono buche e dossi nel terreno, cespugli selvatici, relitti di vecchi edifici la cui originaria natura non é ormai più deducibile e antiquate strutture di metallo informi, probabili vestigia arrugginite di passati Luna Park che hanno levato le tende da tempo. Si sa, i dintorni dell'Estragon, per quanto rinomato e storico locale, sono sempre stati piuttosto lugubri e decadenti ma questa notte mi pare lo siano ancor più del solito, quasi come se dal tour bus degli Swans, parcheggiato dietro al pala-capannone dove a breve si esibiranno, si fosse liberata una forza oscura, un abisso famelico che avesse contagiato e trasmutato a sua immagine tutto il resto. Giunti con generoso anticipo, necessario per farci una birra e aggiudicarci i posti migliori dietro al mixer, al fine di evitare che i soliti spilungoni dell'NBA ti si piazzino davanti, siamo pronti ad abbandonarci all'inesorabile apocalisse che incombe.
Prima che i Cigni prendano legittimamente possesso del palco ''suona'' per una mezz'oretta la ''musicista'' industrial-elettronica newyorchese Pharmakon, un demone nel corpo di una biondina ventiduenne che probabilmente nemmeno i mitici Padre Merrin e Padre Damien de L'Esorcista riuscirebbero a calmare. La ragazza certo non si risparmia nulla, lacerandosi le corde vocali dalla prima all'ultima e generando magmi sonori che potrebbero ricordare i rumori di una fonderia filtrati da un pedale distorsore. Grande energia e coraggio non c'è che dire (o forse solo buono e giusto menefreghismo nei riguardi di qualunque canone e giudizio esterno), ma obiettivamente con artisti del calibro di Wreck And Reference o The Haxan Cloak in giro, molti loro simili non possono che sfigurare e sembrare un po' obsoleti, Pharmakon compresa.
Quando gli echi metallurgici cominciano a dileguarsi nell'umida e brumosa foschia dell'Estragon, dopo un surreale stacchetto audio sulle note dell'eterna Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen, prende posizione il percussionista e multistrumentista, nonché "vichingo ad honorem" Thor Harris che, mostrando con orgoglio il villoso torso nudo, comincia con grande maestria a percuotere il suo gong gigante. Questo ancestrale richiamo di battaglia attira uno ad uno gli altri membri della band ai propri strumenti: sale così l'instancabile batterista Phil Puleo, l'elegante germanico Christoph Hahn alla lap steel guitar, poi Norman Westberg, definito dal frontman Michael Gira ''il Clint Eastwood della chitarra elettrica'' probabilmente per il disumano aplomb che lo caratterizza, e ancora il giovane bassista Christopher Pravdica, entrato nella band solamente da qualche anno. Manca solamente il benestare di Gira che imbracciando la sua Gibson Lucille sembra quasi Mosè pronto a separare le acque del Mar Rosso.
Sinceramente non ho un'idea chiara di quale sia stata la scaletta, ma ho calcolato che ogni canzone doveva avere una durata minima di 15 minuti. Ciò significa che anche quelle più brevi su disco sono state giustamente estese e modificate per un nuovo e prolungato impatto live. Potrei aver riconosciuto A Little God In My Hands, Just A Little Boy e magari To Be Kind dall'omonimo album, inoltre la neonata Black Hole Man (non ancora registrata in studio ma già visionabile in alcuni video live), uno dei vertici di grandioso delirio della serata, e poi boh, non saprei nominare altri titoli ma va bene così. Quando ci si trova al cospetto di pezzi talmente lunghi e piacevolmente estenuanti, viene da pensare dove questa band trovi le energie per ripetersi di serata in serata, sempre con la stessa carica, un impegno davvero ammirevole. L'altro curioso quesito che mi sono posto è stato: ma come fanno a sapere perfettamente quando è il momento dei vari cambi all'interno di una canzone? Nessuno, tranne il frontman che segnalava la definitiva fine del pezzo con un grintoso saltino, faceva mai gesti o segnali agli altri, dunque sono giunto a due conclusioni, entrambe plausibili: una possibilità è che ognuno andasse a sentimento, un po' come nell'improvvisazione jazz, adattandosi alla strada intrapresa dal frontman e dalla sua chitarra; l'altra opzione, forse più veritiera, è che la band abbia provato le canzoni per talmente tanto tempo, che queste sono diventate quasi una parte organica della persona di ogni musicista.
Insomma Gira e compagni hanno tirato dritto per due ore e mezza con una determinazione eccezionale pari solamente all'armonia instauratasi tra i vari membri del gruppo. Nonostante alcune necessarie pause e stop per accordare e ri-settare gli strumenti, i pezzi si sono susseguiti come un naturale flusso di pura energia sonica, nulla era sottotono o fuori fuoco e tutto si incastrava con assoluta organicità alle suite precedenti e successive. Sinceri complimenti vanno anche ai tecnici audio dell'Estragon, artefici di un lavoro eccellente: negli ultimi due anni, sempre qui, ho visto suonare band come My Bloody Valentine e Mogwai, ma nessuno si è mai avvicinato alla qualità e definizione sonora che ha caratterizzato l'esibizione degli Swans. Grande performance e ottimo lavoro dietro le quinte: insomma, bravi tutti. Chiaramente entusiasta era anche il pubblico, che ad ogni occasione dimostrava la propria soddisfazione con scroscianti applausi.
Conclusasi l'ultima, epica canzone, la band ringrazia con educati inchini (dei veri signori!) e Michael Gira presenta i vari componenti italianizzandone scherzosamente nome e cognome (ad esempio ''Cristoforo Pravdiziano'' o qualcosa del genere). Ahahah, un'altra sorpresa questa vena simpaticona del Gira, che calzando il proprio cappellone texano si dedica poi all'incontro con i fan presso il banchetto del merchandise: davvero un grande fino alla fine, e si vede palesemente che adora quello che fa. Ascoltando gli ultimi album allo sfinimento, pensavo di essermi fatto un'idea più o meno chiara di cosa aspettarmi da un concerto di questi Cigni ed invece mi sbagliavo, mi hanno colto di sorpresa. Non sono certo io il primo a puntualizzare che l'esperienza live dovrebbe sempre avere qualcosa di diverso rispetto al disco, di più istintivo, improvvisato e perché no mutevole da serata a serata, a seconda dell'umore e dell'istinto dei musicisti. Ebbene questa esibizione ha incarnato in maniera impeccabile tutti questi ideali, una cosa rara e preziosa per i tempi che corrono.