Seconda parte della nostra classifica 2015: qui sotto trovate le posizioni dalla 19 alla 1 dei nostri dischi preferiti usciti in questi dodici mesi. Qui invece trovate le posizioni dalla 20 alla 40!
E per assicurarsi un anno nuovo accompagnato da tutti i nostri artisti preferiti, non dimenticate di dare un'occhiata al nostro Calendario 2016!
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19. Blur – The Magic Whip
Il disco più sottovalutato dell'anno? Le aspettative in partenza erano abbastanza basse, ma Damon Albarn e compagni ci hanno sorpreso con un lavoro all'altezza del loro glorioso passato, in grado di implementare senza sforzo tutto quello che è successo nel frattempo (Gorillaz compresi) e in generale molto, molto piacevole da ascoltare.
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18. Kurt Vile – b'lieve i'm goin down
Dopo l'eccezionale Wakin On A Pretty Daze, il cantautore di Philadelphia sceglie saggiamente di non confrontarsi con il suo album precedente e realizza un piccolo disco di "simple songs" una più bella dell'altra: quello che manca come visione d'insieme viene ampiamente compensato da uno sguardo sincero come pochi, e in un anno pieno di cantautori come questo si tratta veramente di un primato di cui andare fieri!
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17. Father John Misty – I Love You, Honeybear
Se quello dei Blur è il disco più sottovalutato dell'anno, qui ne abbiamo uno che invece è stato forse un po' sopravvalutato: ma questo non toglie che Josh Tillman abbia realizzato sicuramente uno degli album dell'anno, un passo avanti gigantesco dai tempi dei Fleet Foxes e di Fear Fun, all'insegna di un recupero del cantautorato anni '70 più intrigante. Se dietro al personaggio c'è veramente un grande autore lo sapremo solo con i prossimi dischi, ma sta di fatto che pochissimi sono in grado di parlare di sentimenti in un modo così diretto e convincente. RECENSIONE
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16. Beach House – Depression Cherry
Il 2015 è stato un anno di super-lavoro per il duo di Baltimora: due album in due mesi, entrambi di altissimo livello. Il primo è forse più ipnotico e leggermente meno convicente, ma siamo comunque di fronte a nove brani di dream-pop in stato di grazia: anche se l'effetto-sorpresa è ormai passato, bravura e ispirazione sono sempre garantite.
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15. Beach House – Thank Your Lucky Stars
Il "gemello" di Depression Cherry è meno etereo del fratello, e ci riporta di botto ai Beach House stellari e concreti di Teen Dream: è questione di differenze davvero minime, ma tra i due è questo quello che preferiamo!
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14. Kamasi Washington – The Epic
Esordire con un triplo album non è impresa da tutti, ma farlo con la sicurezza mostrata da questo 34enne losangelino significa avere veramente un talento straordinario. Il disco jazz che quest'anno è riuscito a mettere d'accordo tutti, avvicinando al genere anche chi normalmente (e ci mettiamo tra questi) lo guarda con un certo sospetto.
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13. Panda Bear – Panda Bear Meets the Grim Reaper
In attesa del gran ritorno degli Animal Collective previsto per l'anno prossimo, Noah Lennox è riuscito comunque a lasciare il suo segno su questo 2015, realizzando il suo lavoro solista più accessibile e equilibrato. Dall'inizio alla fine, quasi ogni brano contiene dei piccoli momenti di gioia per le nostre orecchie, unite a una visione psichedelica d'insieme mai così a fuoco fino ad ora. RECENSIONE
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12. Jamie xx – In Colour
L'album elettronico dell'anno mette finalmente in luce tutto il talento straripante di Jamie Smith: tra collaborazioni eccellenti, spunti hip-hop e intimismo alla James Blake, ce n'è per tutti i gusti, a patto di sapersi lasciar trasportare dalla successione dei brani. RECENSIONE
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11. Destroyer – Poison Season
Dopo l'inaspettato successo di Kaputt, Dan Bejar ha tenuto fede alla sua promessa di "cercare di alienare quanti più fan possibili" realizzando un successore assai più cupo e intimista, il cui cuore pulsante è per la prima volta affidato a un quartetto d'archi che abbellisce i pezzi migliori. Inutile dire che anche questa volta l'artista canadese ha fatto centro, ma del resto un personaggio con il suo carisma potrebbe tranquillamente cantarci l'elenco del telefono: a noi andrebbe benissimo lo stesso!
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10. Bjork – Vulnicura
Il 2015 è stato l'anno del grande ritorno di Björk, che davamo ormai dispersa tra progetti multimediali e sperimentali decisamente troppo ostici per l'ascoltatore medio. L'ha fatto con un disco doloroso e bellissimo, una specie di diario della separazione dal marito Matthew Barney con i testi più personali della sua carriera, accompagnati solo da archi e basi elettroniche. Non un disco per tutti, e sempre ad un passo dall'avanguardia, ma questa volta l'insieme colpisce così in profondità che è impossibile non rimanerne affascinati. RECENSIONE
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9. Sleater-Kinney – No Cities to Love
Dopo dieci anni torna una delle band fondamentali nella storia recente della musica rock, e non delude affatto: No Cities to Love è un condensato (30 minuti scarsi) del perché nessuno è riuscito nemmeno ad avvicinarsi all'intensità emotiva del trio, tra ritornelli killer, energia da vendere e una vena pop mai sopita che questa volta fa capolino più di una volta. RECENSIONE
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8. Joanna Newsom – Divers
Dopo il triplo Have One On Me era difficile pensare a qualche aspetto della musica di Joanna Newsom che non fosse stato già ampiamente esplorato, ma l'arpista americana è riuscita comunque a sorprenderci: Divers è un album di canzoni atipiche, con ghirigori classici e digressioni di ogni genere, ma pur sempre riconoscibili come canzoni. Per un'artista che ha fatto dell'eccesso la sua cifra stilistica, ci troviamo di fronte a un ammirevole sforzo di auto-disciplina, in un album allo stesso tempo accessibile e riuscito.
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7. Courtney Barnett – Sometimes I Sit and Think and Sometimes I Just Sit
Fantastico esordio di questa venticinquenne australiana, che mette in luce un talento compositivo e lirico fuori dal comune, un'ottima collezione di dischi anni '90 (Pavement su tutti) e un'attitudine da maschiaccio che è come una boccata di aria fresca tra le tante figure femminili stereotipate in ambito musicale. Lo possiamo dire: è nata una stella!
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6. Sun Kil Moon – Universal Themes
Uno dei dischi più discussi dell'anno, un macigno da oltre 70 minuti con cui Mark Kozelek porta alle estreme conseguenze il metodo compositivo messo in luce l'anno scorso sull'acclamato Benji: testi lunghissimi presi di peso dal suo diario, basi musicali spesso ripetitive e non sempre a fuoco e un'aria improvvisata negli arrangiamenti. Ma resta il fatto che solo un genio è capace di realizzare un disco del genere e renderlo non solo ascoltabile, ma pieno di illuminazioni fulminanti sulla vita e la morte.
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5. Deerhunter – Fading Frontier
Dopo quasi dieci anni di onorata carriera, Bradford Cox e compagni realizzano il loro lavoro più accessibile: una manciata di brani in cui sperimentazione e sensibilità pop vanno finalmente a braccetto, e c'è anche un singolo funky tutto da ballare! RECENSIONE
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4. Jim O'Rourke – Simple Songs
In un anno in cui tutti hanno cercato di ricreare le atmosfere dei cantautori anni '70, tocca a un vero maestro che insegue quel suono da quasi vent'anni mostrare come si fa: Simple Songs tiene fede al suo titolo con otto brani praticamente perfetti per atmosfera, strumentazione e arrangiamenti, sui quali si staglia la voce di un Jimbo mai così crooner.
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3. Grimes – Art Angels
Il disco pop dell'anno: la sorprendente metamorfosi di Claire Boucher da artista di nicchia a producer di grido passa per un album squisitamente commerciale, tutto superfici lustrate e ritornelli killer. Il modello è il pop da classifica dei primi anni 2000, ma con la sensibilità autorale che solo la provenienza dal mondo indie può garantire: una vera bomba senza un attimo di tregua, capace di conquistare chiunque sia in grado di canticchiare uno qualsiasi dei suoi ritornelli.
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2. Tame Impala – Currents
L'altra faccia dell'Australia che ci piace, e un altro caso di reinvenzione artistica non da poco: Kevin Parker smette definitivamente i panni di loner fissato con la psichedelia anni '60 e approda alla modernità con un disco strapieno di suoni sintetici, ma mantenuto vivo da una visione artistica sbalorditiva. I brani più apertamente psichedelici non sono mai suonati così bene, ma c'è molto di più: dolorosa introspezione in alcuni dei testi, un sequencing dei brani praticamente perfetto, e la capacità di condensare influenze disparate in qualcosa di assolutamente originale.
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1. Sufjan Stevens – Carrie & Lowell
"This is not my art project; this is my life". Così Sufjan Stevens descriveva il suo nuovo album a marzo di quest'anno, e subito abbiamo capito di trovarci davanti a qualcosa di eccezionale: non esiste alcun disco tra quelli usciti quest'anno in grado di avvicinarsi alla profondità delle emozioni messe in luce da Sufjan nel suo album più personale e riuscito. Ispirato dalla morte di sua madre nel dicembre 2012, il cantautore del Michigan mette in atto una dolorosa ma necessaria ricognizione dei suoi sentimenti riguardanti la scomparsa, scandagliando il significato dell'amore, il valore della famiglia e l'ineluttabilità insensata della morte. Brani come Fourth of July o Should Have Known Better sono in grado di far gelare il sangue nelle vene di chiunque abbia un cuore; altri (Eugene, No Shade in the Shadow of the Cross) si limitano a farci piangere come vitelli con un'intensità difficile da sopportare. In poche parole ci troviamo di fronte a un capolavoro in grado veramente di parlare una lingua universale, e farci sentire un po' meno soli, una volta tanto. RECENSIONE
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