Zachary Cole Smith racconta come in un diario la sua dipendenza dalle droghe, tra la malinconia dei Cure, la psichedelia dello shoegaze e la voglia di sognare del synth-pop.8/10Uscita: 5 febbraio 2016 Captured Tracks Compralo su Amazon: Audio CD |
Il secondo album dei DIIV Is The Is Are è sicuramente uno dei dischi più attesi dell'anno. Ne è passato di tempo dal loro magnifico debutto Oshin del 2012, che ha permesso alla band di sfondare nel mondo indie diventando dei nuovi idoli generazionali. Nonostante la lunga pausa, la band non ha certo smesso di far parlare di sè, a causa delle varie vicissitudini del cantante Zachary Cole Smith e della sua fidanzata Sky Ferreira, arrestati nel 2013 per un ingente possesso di droga che ha lasciato un po’ tutti di stucco. La vicenda non ha comunque sminuito le grandi attese per il secondo album della band newyorkese, e anzi (per ammissione dello stesso Smith) rappresenta il carburante che alimenta la poetica del nuovo lavoro.
Fin dal titolo viene in mente un altro album generazionale per eccellenza, il fantastico debutto degli Strokes Is This It (2001), ai quali i DIIV si possono però accostare solo per l'impatto avuto sulla scena musicale, non certo dal punto di vista musicale. I quattro di Brooklyn sono infatti diventati, un po’ senza volerlo, una delle band di riferimento della gioventù degli anni 10 e con questo LP non sembrano tirarsi indietro: Is The Is Are è un album che racchiude in sè la malinconia dei Cure, la psichedelia dello shoegaze e la voglia di sognare del synth-pop. Out Of Mind è una intro perfetta, batteria ritmata e sostenuta sulla quale si posa una voce melodica e “quasi” allegra, e riff di chitarra praticamente perfetti: da tempo non ascoltavo un pezzo shoegaze cosi ben costruito. L’inizio dell’album è davvero scoppiettante: Zachary e compagni hanno deciso di infilare subito i singoli presentati come anticipazioni nei mesi scorsi, seguono infatti Under The Sun, Bent (Roi’s Song) e Dopamine. Sono brani che anche dopo averli ascoltati mille volte, riescono a suonare ogni volta in maniera nuova, un nuovo “trip” ad ogni ascolto.
In questi quattro pezzi forse è racchiusa tutta la vera essenza del disco e della band che l'ha creato. Zachary riesce a trasmetterci tutto con delle liriche che suonano perfette per la loro semplicità: non usa mezzi termini per descrivere la sua dipendenza che lo sta lacerando e come egli “dia via” anni della sua vita “per un'occhiata al paradiso, qui e ora” (Dopamine). Il biondo frontman sembra consapevole del pericolo a cui si sottopone per colpa delle droghe, ma con un atteggiamento quasi rassegnato ci confessa che solo grazie al mix tra “white e brown” si sente se stesso.
Questo LP sembra quasi un diario in cui il cantante può confessarsi, esprimere i suoi sogni, le sue aspirazioni, le sue angosce. Diversamente da quello che si può pensare è tutto contornato da un’atmosfera fatta di synth e riff che rendono la narrazione malinconica ma non triste e “scontatamente" depressa. I DIIV vogliono mostrarci il loro paradiso, farci capire il perché di tutto questo, e realizzano probabilmente uno degli album più sinceri e sconsolati sul tema delle sostanze stupefacenti dai tempi di Dirt degli Alice in Chains (1992): Take Your Time è un brano in cui Zach se la prende addirittura con i centri di recupero e le loro terapie, sottolineando l’importanza di prendersi del tempo per capire se stessi prima di sottoporsi a percorsi di recupero forzati, che secondo lui non risolvono la situazione.
Arriviamo alla title-track dell’album, la canzone più rappresentativa, quella nella quale i battiti salgono: Is the Is Are poggia su una ritmica più accelerata, semplice e di impatto, con onde di synth che la accompagnano. La voce di Smith, che in un primo momento dice di star precipitando, arriva ad ammettere di voler morire ma allo stesso tempo dichiara di lottare per la vita, facendo crollare quel velo di rassegnazione che prima avevamo percepito (ad esempio in Dopamine). Cosi come il testo anche la musica, più sostenuta rispetto al resto dell’album, suona come un atto di ribellione e di attaccamento alla vita.
Arrivati a questo pezzo sembra che non ci sia molto altro da aggiungere, ma l'album continua con ben altre 8 tracce per un totale di 17: troppe per un disco di questo genere, che sarebbe risultato sicuramente più incisivo e di facile ascolto con una decina di brani. In questo lungo finale si distingue (Napa), un pezzo che definirei new wave per la sua rabbia compressa nel semplice bisbigliare del cantante, una rabbia che non esplode mai; segue subito dopo Dust, un gran pezzo synth-pop, un finale eccezionale in cui i quattro dimostrano una volta per tutte che, oltre che per il loro dubbio stile di vita, vogliono essere ricordati anche come ottimi musicisti, in grado di costruire onde di suono di pura scuola shoegaze.
Si arriva alla fine con la percezione che quello che si è appena ascoltato è uno di quegli album che non passeranno inosservati, un lavoro che ha tanto da dire e lo dice. Se con Oshin i DIIV si sono candidati a divenire il simbolo di una generazione, con questo album se ne sono accaparrati il diritto: se è possibile fare paragoni azzardati direi che ci troviamo di fronte a dei nuovi Slowdive e forse anche qualcosa di più. Speriamo solo che la band riesca a porre freno ai suoi eccessi per poterci deliziare ancora con tanta altra musica negli anni a venire.