A 22 anni da Pygmalion tornano gli Slowdive: in sole otto tracce viene ripercorsa la storia del miglior shoegaze, in bilico tra atmosfere rarefatte e feedback.
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Prima di venire spazzate via dall’onda lunga del brit-pop, le melodie sognanti e le chitarre in feedback dello shoegaze segnarono indiscutibilmente la musica inglese della prima metà degli anni ’90. Gruppi come My Bloody Valentine, Ride, Lush e Slowdive hanno prodotto innumerevoli epigoni e dato alle stampe dischi incensatissimi dalla critica, senza però mai riuscire a emergere davvero dalla dimensione underground. Nell’ultimo decennio, però, abbiamo assistito a una sorta di rinascimento dello shoegaze, con il ritorno in attività di alcuni tra i protagonisti più importanti del genere. Ad aprire le danze sono stati i My Bloody Valentine nel 2013 con mbv, primo album di inediti dopo il capolavoro Loveless del 1991; a loro ha fatto seguito la reunion lampo dei Lush, esauritasi con una serie di date live e la pubblicazione dell’EP Blind Spot del 2016; infine i Ride sono attesi al varco il mese prossimo con il loro primo album dopo 21 anni, Weather Diaries.
In un simile contesto, quindi, nessuno potrà dirsi meravigliato per l’uscita di un nuovo disco degli Slowdive. A maggior ragione perché il loro ritorno sulle scene è sì storia recente, ma non recentissima: il quintetto di Reading, infatti, è in giro per il mondo già da tre anni. Questo ha permesso alla band di rientrare in studio – 22 anni dopo l’ultimo e sfortunato Pygmalion – già rodata e con le idee chiare sul da farsi. Senza contare il fatto che le due menti creative, i cantanti/chitarristi Neil Halstead e Rachel Goswell, non hanno mai interrotto il loro connubio artistico: dopo la fine degli Slowdive hanno sono stati insieme anche nei Mojave 3, interessante progetto che univa atmosfere dream pop/shoegaze a elementi folk e country.
Halstead e Goswell avevano già dimostrato questo gusto per le contaminazioni sonore nelle uscite più recenti degli Slowdive: le sfumature dub e ambient frutto della collaborazione con Brian Eno in Souvlaki (1993); le atmosfere rarefatte di Pygmalion, esperimento – a tratti forse troppo ardito – di fusione tra musica acustica, elettronica e drone. Il nuovo album, invece, sembra in parte voler ridare spazio alle sonorità più immediate dell’esordio Just for a Day (1991). Una sorta di ritorno alle origini, certificato dalla scelta di non dare un titolo al lavoro; come se si trattasse di un vero e proprio reboot artistico, più che di un semplice disco post-reunion.
L’apertura è affidata a Slomo, brano dal sound etereo in cui hanno grande risalto i marchi di fabbrica tipici dello stile shoegaze: una chitarra in delay apre la strada a una batteria che sembra arrivare direttamente dai primi anni ’90, sulla cui base ritmica si posano le dolcissime melodie quasi sussurrate da Halstead e Goswell. Star Roving, primo singolo estratto, alza decisamente i toni e presenta il quintetto in una veste più “indie” e moderna, in grado di attirare anche gli ascoltatori a digiuno con il genere. Con Don’t Know Why invece si torna di nuovo indietro nel tempo, tra un beat agitato che si alterna alla fragilità della voce angelica di Rachel Goswell e improvvise aperture in stile Cocteau Twins. Il basso pulsante di Nick Chaplin fa da cornice a canzoni come Sugar For The Pill e No Longer Making Time: questi due sono i momenti più pop del lavoro, con atmosfere sospese tra Editors e U2 d’antan.
Le melodie sognanti e sospese riaffiorano nel muro di delay e riverberi di Everyone Knows e nel rock psichedelico di Go Get It, brano che prende più di qualche spunto dal classicone dei Pink Floyd Breathe (da The Dark Side of the Moon). Il disco si chiude con Falling Ashes, una ballata di otto minuti intensa e struggente, nella quale le voci di Halstead e Goswell si rincorrono su poche ossessive note di pianoforte e qualche timido intervento di chitarra. Un pezzo minimale, introspettivo e di grande suggestione, in grado di riportare alla mente sonorità care ad artisti come David Sylvian o i Portishead.
Nelle otto canzoni che compongono questo quarto lavoro in studio, gli Slowdive riescono in modo convincente a trovare una via moderna allo shoegaze, in grado di non scontentare i fan della prima ora e di attirarne di nuovi. Il suono è molto più radio-friendly e immediato rispetto al passato, ma questa non è una nota di demerito; il quintetto inglese mostra grande maturità artistica e confidenza nei propri mezzi, vincendo la sfida della prima sortita post-reunion con un disco che è un perfetto resoconto della loro vita precedente, ma anche una finestra aperta verso nuove interessanti evoluzioni sonore.