Vivere un’esperienza totalizzante: è questo il tratto distintivo del Siren Festival. Mentre manifestazioni ben più popolari insistono con modalità di fruizione della musica dal vivo prive di un vero slancio innovativo, il Siren è la dimostrazione che l’Italia periferica può tornare al centro del discorso puntando non solo sul richiamo dei nomi in programma, ma anche e sopratutto sul contesto.
Non è un caso che tutto ciò avvenga in provincia, in un luogo capace di plasmare su di sé un modello di evento tipicamente europeo integrandolo nel paesaggio più autentico che il paese possa offrire: non una landa dispersa in un’anonima zona industriale né un infuocato e gigantesco ippodromo cittadino. A Vasto spiccano le architetture armoniose di un borgo medievale che apre le sue piazze, i suoi palazzi antichi, le chiese e i giardini (in questo caso anche le spiagge), dove storia e natura esaltano l’unicità della cornice per trasformare l’esperienza del concerto in qualcosa di originale. È qui l’essenza del Siren, dove la forza sta nella capacità di assemblare a ogni edizione una line-up con nomi nuovi e più affermati della scena nazionale ed internazionale, frutto di una ricerca sul contemporaneo, il vero filo conduttore di questo evento.
Dopo il prologo con Malihini e Taxiwars del 27 luglio, entriamo nel cuore della manifestazione venerdì 28: ci accolgono le declamazioni di Emidio Clementi, accompagnato dai ricami di chitarra di Corrado Nuccini, che trovano una naturale scenografia nella splendida terrazza verde sul mare dei Giardini d’Avalos: questi artigiani della parola e del suono rimodellano i poemi di T.S. Eliot tratti da Quattro Quartetti elevando l’espressione della parola in un atto che ammalia il pubblico seduto sul prato. Il giorno seguente invece la giovane stella del cantautorato inglese Lucy Rose spezzerà il vivace ronzio dei presenti e conquisterà l’attenzione con il suo set chitarra e voce, come solo una veterana può permettersi di fare.
Lucy Rose
Davvero un peccato venire raffreddati dall’algido set di Jenny Hval e dai suoi tormenti elettronici. Un tappeto sonoro poco consistente e un’interpretazione al limite dello stucchevole non ci danno certo il giusto benvenuto al main stage di Piazza del Popolo; un palco a cui non occorre scenografia se non l’orizzonte tagliato in due dal cielo e dal mare in perfetta simmetria sullo sfondo.
A ridestarci è un vento caldo proveniente dalla California che soffia nel cortile interno di Palazzo d’Avalos sui riverberi di chitarra e nel beat 60’s degli Allah Las, il primo gruppo ad aprire letteralmente le danze in questa quarta edizione del festival. I ragazzi di Los Angeles hanno dalla loro un’attitudine genuinamente r&r che ci fa perdonare la sensazione di ripetitività che spesso si insinua tra un brano e l’altro. Il loro groove sensuale è efficace e trascina tutti in un ballo che alza decisamente la temperatura del Siren.
Quando è Ghali a salire sul palco principale il pubblico si divide in due: i giovanissimi occupano le prime file, mentre i più smaliziati masticatori di musica osservano defilati tra il perplesso e l’incuriosito l’esibizione del giovane rapper italo-tunisino. È questo il momento più controverso, se vogliamo di “rottura”, dell’intero festival. Che piaccia o meno il genere, Ghali ha il (discutibile) merito di essere riuscito a sdoganare la trap in Italia, affermandosi come leader di una scena nella scena; ma non è di certo una mosca bianca nel panorama musicale nostrano, tantomeno un fenomeno sociale come è stato dipinto. È un ragazzo che soffre di tutti i patemi d’animo tipici dell’italo-rapper da classifica, con un campionario di argomenti piuttosto scontato. La sua vera “rivoluzione”, come lui stesso ha affermato, sta nell’essere arrivato senza aver dato troppo peso né alla sua provenienza né al suo colore. È un messaggio implicito che sta tra le righe delle sue canzoni. Consapevoli o meno, i ragazzi delle prime file fanno decisamente il tifo per lui.
Sono i Baustelle a ricucire lo strappo generazionale nel pubblico, impeccabili sia nell’esecuzione, sia nell’abbigliamento. Come degli abili sarti, Bianconi e Co. ricamano pop d’autore con una nonchalance che non è affatto di maniera, anzi, dal vivo le canzoni si fanno più ruvide e istintive quel tanto che basta per farceli apprezzare ancora una volta. Sulle note di La guerra è finita ballano gli hipster e pure le signore sedute al caffè della piazza: la musica divide, la musica unisce.
Baustelle
Sul palco di Porta San Pietro (con un’anteprima pomeridiana al Siren Beach) passa in rassegna una selezione della crème dell’indie italiano tra cantautorato, pop ed elettronica. La forbice tra talento e ordinarietà è stretta e divide nettamente chi vive di riflesso da chi tenta di costruire una propria via. Tra questi ultimi emerge Maiole, funambolico dj allo stato brado, un autentico trascinatore da pista da ballo. Tra i cantautori attira l’attenzione Persian Pelican, che sprizza fantasia ed esotismo, mentre Andrea Laszlo De Simone e Giorgio Poi sono bravi a declinare Battisti senza compromettersi; il primo con una buona dose di sarcasmo e psichedelia contemporanea, il secondo unendo l’andamento ciondolante del miglior Mac DeMarco ad un'innata bravura compositiva, non sempre a fuoco ma già distintiva.
Intanto sul secondo palco è la volta dei Cabaret Voltaire, rappresentati dal solo Richard H. Kirk: una vera performance dove il mix-up disturbato del collettivo si fonde con allucinate video proiezioni formando un unicum dalla potenza sonora e visiva devastante. Sascha Ring, in arte Apparat è il perfetto “maestro di cerimonie” in chiusura del primo giorno di festival. Il tedesco, anche in veste di selezionatore, è sempre in equilibrio costante tra suggestioni ambient e possenti ritmiche IDM trasformate abilmente in crescendo, che in un colpo solo catturano gambe e cuore.
Ad inaugurare i concerti di sabato 29 tra gli headliner di Piazza del Popolo è l’israeliana Noga Erez. L’esile ragazza di Tel Aviv è una forza della natura: la sua è un’elettronica nervosa, dalle ritmiche scomposte e dai bassi sempre pulsanti, dove il canto, a metà tra rap e melodia, si incastra con naturalezza. Grande plauso ai due ragazzi che la accompagnano, davvero eccellenti nel creare complessi tappeti sonori con il solo uso di pad. Una piacevole sorpresa.
Noga Erez
Subito dopo è il turno di Ghostpoet, la vera scommessa vinta dal Siren. Il ragazzone inglese si presenta in Italia per la prima volta e dopo la virata rock del suo ultimo disco Shedding Skin. L’effetto live ne premia la scelta: con una vera band alla spalle Obaro Ejimiwe amplia il proprio ventaglio sonoro, che dal trip-hop degli esordi passa agevolmente a tonalità nu-soul e bordate rock-blues, nel segno di una felice contaminazione che è la sua personale cifra stilistica. Magnetico come pochi nel suo incedere, il gruppo ne esalta la potenza espressiva stratificando ulteriormente le trame dei brani in avvincenti saliscendi sonori. Classe e talento che conquistano la piazza canzone dopo canzone, inesorabilmente, fino a un grande applauso finale.
Ghostpoet
La spasmodica attesa per i veterani Arab Strap si rivela nella fila che si crea all’ingresso di Palazzo d’Avalos e restituisce subito il grado di affetto del pubblico per il duo scozzese. Bastano pochi minuti e l’attacco lento e avvolgente del gruppo innesca nel pubblico emozioni sopite ma mai dimenticate. Si ristabilisce un contatto stasera, le canzoni come ponti emotivi tra cuori e palco poggiati su pilastri di solido indie rock. Aidan Moffat e Malcolm Middleton non hanno perso un grammo dello smalto che li contraddistingue ed è chiaro che non sono qui per battere cassa ma per celebrare degnamente la loro storia ad undici anni dallo scioglimento. Un’autenticità che trapela in ogni singola nota, in ogni sguardo d’intesa con il resto della band che li segue in questa cavalcata che molti sperano possa non fermarsi qui.
Arab Strap
L’atto conclusivo della serata spetta al dj e producer Trentemøller, e non poteva esserci scelta più azzeccata. Anders arriva a Vasto nel momento migliore della sua fase compositiva, quella che unisce perfettamente la sua anima post-punk alle derive minimal-techno con un assetto tipicamente rock: basso, chitarra, synth e batteria. Elettronica fisica, carne e beat in un crossover che smuove le fondamenta della piazza dal primo all’ultimo pezzo. È un party intelligente, ricco di influenze mixate con gusto sopraffino, che spiega perché il producer danese sia considerato uno dei personaggi chiave della musica del nuovo millennio.
Domenica 30 Vasto torna ad essere la cittadina di sempre. Il centro storico ritrova la sua quiete con gli ultimi rimasti che scappano verso il lido in cerca di sollievo da una giornata afosa. Chi decide di restare lo fa per non mancare al rituale concerto che chiude il festival nella chiesa del Carmine. Quest’anno tocca al cantautore svedese Jens Lekman celebrare l’arrivederci alla prossima edizione. Spogliato dalle orchestrazioni pop del suo ultimo disco Life Will See You Now, Jens torna alle origini e con solo voce e chitarra narra di cadute e rinascite tratte del suo breviario di vita. L’eco che si genera naturalmente nella chiesa è un prezioso alleato e Jens lo utilizza con cura ed esperienza per enfatizzare le sue liriche: pagine rilette con la forza di chi sa mettersi a nudo da una voce in grado di elevare i sentimenti a melodie delicate, talvolta giocose e in contrasto con le storie cantate.
Jens Lekman
Il rito si chiude con l’ultimo brano accompagnato da un grande applauso della chiesa colma di persone. Il Siren termina strappandoci già una promessa: il prossimo anno saremo ancora qui, a raccontare di questo piccolo grande miracolo della provincia.
Qui sotto trovate lo slideshow con tutte le foto di Francesco Marini, alcune delle quali compaiono nell'articolo.