Dopo l’esuberante Gorilla Manor i quattro californiani scavano in profondita’ con il loro secondo album: una scelta coraggiosa ma che da’ i suoi frutti. |
Per una giovane band tre anni possono rappresentare un’intera era geologica: se Gorilla Manor, il debutto dei Local Natives uscito a fine 2009, aveva mostrato una band capace di metabolizzare tutte le ultime tendenze nell’ambito della musica indie-folk (cori alla Fleet Foxes, frenesie ritmiche alla Dodos e intrecci elettro-acustici alla Grizzly Bear) mantenendo comunque la scanzonata allegria di un gruppo di amici che suona insieme, il nuovo album Hummingbird sceglie una strada decisamente diversa.
Già da un primo ascolto è evidente l'operazione messa in atto dalla band californiana: lasciare da parte la soddisfazione immediata dei brani più poppeggianti di Gorilla Manor per insistere su toni molto più tranquilli e meditati. Una svolta “adulta” aiutata dalla produzione meticolosa e dettagliatissima di Aaron Dessner dei The National, che si fa sentire non tanto nei suoni quanto nell’aver probabilmente indicato ai quattro ragazzi di spingere il pedale sugli aspetti più malinconici della loro ispirazione (già intuibili su brani del disco precedente come Shape Shifter e Who Knows Who Cares).
Una volta superato il primo shock e messi da parte i paragoni con il passato recente, l’effetto non è niente male: l’album si regge sulle consuete composizioni mid-tempo (l’apertura You & I, l'acustica Ceilings, Black Balloons) e su una buona dose di lente ballate, con l’inserimento della nervosa Wooly Mammoth come unico episodio più movimentato. I primi due singoli Breakers e Heavy Feet (non a caso dati in pasto al pubblico qualche settimana prima dell’uscita del disco) sono i brani che trovano la quadratura del cerchio tra i Local Natives esuberanti del passato e quelli più riflessivi di oggi: i controtempi della batteria di Matt Frazier (uno degli elementi più in evidenza di Gorilla Manor, che invece qui viene utilizzato con parsimonia) forniscono la base sulla quale si vanno a sovrapporre i consueti cori. Ma anche in questo caso c’è qualcosa di diverso: il ritornello di Heavy Feet si carica di un pathos inedito, mentre Breakers ottiene lo stesso effetto affiancando una strofa sussurrata e un esplosivo ritornello.
A maggior ragione l’evoluzione nel suono della band si nota ancora di più quando il tempo rallenta e spunta il pianoforte: è il caso di Three Months e Colombia, dove mai come prima viene in messa in evidenza la voce teatrale del frontman Taylor Rice. Attraverso misurati crescendo in cui gli strumenti si aggiungono uno per volta si arriva all’accorato appello di Colombia “Am I giving enough? Am I loving enough?”, dedicato alla madre di Rice, morta durante le registrazioni del disco: è indubbiamente il momento più toccante dell’album, nonché quello in cui la band si allontana maggiormente dalla sua precedente incarnazione, mostrando capacità veramente insospettabili fino a poco fa.
In altri punti invece la patina “seriosa” va a danneggiare il risultato finale: è il caso dell’immobile Black Spot, che cerca inutilmente di costruire tensione con quasi cinque minuti di tastiere tremolanti e cantati sussurrati che sfociano in un pomposo finale, così come della ballata acustica Mt. Washington, che ricorda i Radiohead di The Bends ma non aggiunge nulla a quanto messo in mostra nel resto del disco.
Si tratta comunque di incidenti di percorso: specie dopo ripetuti ascolti, Hummingbird si segnala come una mossa coraggiosa da parte di una band così giovane, il distacco definitivo dai modelli di riferimento per affermare finalmente la propria identità. Certo, a volte sembra quasi che i quattro californiani abbiano perso la freschezza che aveva contraddistinto il loro esordio, ma ci hanno anche guadagnato qualcosa di molto più importante: una profondità e maturità invidiabili, che nei momenti migliori supera nettamente quanto ci avevano fatto ascoltare finora.
I Local Natives saranno in concerto a Milano a fine febbraio: vi ricordiamo che i biglietti sono disponibili su Ticketone.