Giovedi' 30 maggio
Un caloroso bentornato per l’Optimus Primavera Sound, che alla sua seconda edizione ha già toccato la cifra di 75.000 spettatori: il fratellino del Primavera Sound di Barcellona sta davvero crescendo. E' questa l’impressione che mi accoglie non appena varco i cancelli del maestoso Parque da Cidade di Porto. L’edizione 2013 del festival portoghese vanta una selezione impressionante sia per la qualità dei nomi coinvolti che per la ricchezza dei generi musicali che abbraccia; non appena scorrono le prime note, ho la consapevolezza di trovarmi davanti una cornice solida e oramai ben collaudata. Rispetto all’anno scorso è stata a mio avviso gestita in modo più efficiente la programmazione oraria dei palchi in modo da evitare al massimo le sovrapposizioni. All’interno del recinto del parco è tutto un brulicare di persone e colori: una decina di stand divisi tra merchandising ufficiale e mercatini eco-solidali ci accolgono sorridenti; anche l’area ristoro è organizzata in modo vario e super efficiente, spaziando su un’ampia gamma di offerte, dai prodotti locali ai panini imbottiti, dal chiosco vegan fino al sushi per i palati più esigenti.
Non è ancora tramontato il sole quando ci avviciniamo al palco Optimus (quello principale) per il nostro primo concerto, quello delle Breeders, che ripropongono integralmente il loro album più acclamato, Last Splash. La scaletta è fedele alla tracklist originale del disco, ma la patina dei vent’anni trascorsi dalla sua uscita si avverte un po’, soprattutto in termini di energia: Kim Deal e le altre ci offrono un’esibizione al passo ma forse fin troppo ordinata e disciplinata, man mano che scorrono le hit Divine Hammer, Cannonball e New Year.
A conclusione della performance, una fila già nutrita di alcune migliaia di persone si sposta verso il palco adiacente (il Super Bock) per assistere all’esibizione degli australiani Dead Can Dance, in ottima forma fisica e dall’impatto veramente dirompente. Dopo una lunga pausa dalle scene, infatti, la band guidata dai cantanti e polistrumentisti Lisa Gerrard e Brendan Perry ha dimostrato di poter riproporre efficacemente la loro complessa miscela di elettro-etno-pop anche in un contesto così ampio e potenzialmente dispersivo come quello di un grande festival: dopo l’apertura, affidata alla monumentale ed evocativa Children of the Sun, si prosegue snocciolando vere e proprie perle (selezionate specialmente dall’ottimo Anastasis, uscito l’anno scorso) sia strumentali che non, durante le quali i due cantanti (e i loro ricchi timbri di contralto e di baritono) hanno dominato la scena anche grazie agli ottimi arrangiamenti in chiave orchestrale ad opera dei due tastieristi e delle percussioni. Un tripudio di sonorità vicine e lontane, riuscitissimo ibrido tra antico e recente, con un'interessante conclusione affidata alla cover di Tim Buckley Song to the Siren.
Dead Can Dance
Davvero strano, dopo un’esibizione dall’effetto quasi trance e ipnotico, risvegliarsi dall’incantesimo con la scarica di adrenalina offerta da Nick Cave assieme alla storica compagine dei Bad Seeds. Si apre con We No Who U R, dall’ultimo, bellissimo Push The Sky Away, alternando pezzi nuovi ad una selezione dagli album precedenti: dopo Jubilee Street ed il suo crescendo infuocato, vengono intonati il grande classico della band From Her To Eternity (in cui c’è spazio anche per un coro da parte della folla) e poi Red Right Hand e Stagger Lee. Seguono la struggente The Weeping Song, Jack The Ripper e Tupelo. A chiudere questa suggestiva carrellata nei meandri degli anni ’80 e ’90 la title track dell'ultimo LP Push The Sky Away, per un live di alto livello, dalla resa timbrico-dinamica molto soddisfacente e sapientemente bilanciata nei suoi equilibri emotivi.
Ci appare sin da subito curioso il contrasto tra il viaggio nel tempo che abbiamo appena compiuto insieme a Nick Cave e la successiva esibizione dei Deerhunter. La band di Atlanta si scatena in una selezione dai suoi due ultimi album: Halcyon Digest e il recentissimo Monomania. La tracklist offerta al pubblico è stata quindi all’altezza delle aspettative con pezzi come Neon Junkyard e The Missing, seguiti da Desire Lines (probabilmente la loro canzone con il refrain più accattivante) e Memory Boy. Back to the Middle viene dedicata al chitarrista Josh McKay per il suo compleanno, con annesso Happy Birthday in portoghese, che coinvolge anche la folla. La successiva Monomania chiude un’esibizione davvero memorabile.
Sono scoccate le due del mattino da pochi minuti quando fa la sua apparizione in scena il giovane talento londinese James Blake, classe 1988, recentissima rivelazione mondiale. Nei due eccellenti album che costituiscono la sua discografia (il primo LP eponimo e il recentissimo Overgrown), l’artista ha distillato un sound unico, morbido e raffinato, stilisticamente a metà strada fra tradizione cantautoriale black-soul e tecnologie e scelte estetiche di stampo elettro pop più contemporaneo. Sul palco con una band in assetto ridotto, quasi a voler demarcare un perimetro rarefatto ed intimistico, all'interno del quale Blake ha suonato per un’ora intera sul limitare di sogno e realtà fra loop di stampo soul e psichedelici, su cui si staglia il suo timbro vocale caldo e vibrante. Si è costantemente in un clima di sospensione onirica fra l’esecuzione di Digital Lion e quella della cover di Feist che l’ha reso celebre, Limit to Your Love, mentre i bassi dal suono saturo e distorto si fanno protagonisti ed invitano il pubblico a muovere la testa a tempo; poi è la volta di To the Last e di The Wilhelm Scream a definire ancor più i dettami di un’entità sonica altamente immaginifica ed evocativa.
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Venerdi' 31 maggio
Melody's Echo Chamber
Con i Local Natives si apre la nostra seconda giornata del festival: indie rock band dalla California al secondo album, i quattro offrono una miscela irresistibile di groove super esplosivi e armonizzazioni a tre voci che catturano al volo l’attenzione dei presenti, soprattutto in pezzi come Breakers e Heavy Feet, in una proposta rock proiettata verso confini e mondi sonori sempre più contaminati.
Alle 21 in punto, invece, ha inizio il live del duo pop-krautrock composto dall’argentina Luciana della Villa e dall’australiano Sergio Pérez, in arte SVPER (precedentemente conosciuti come PEGASVS), esibitisi sul più piccolo fra i palchi, il Pitchfork, davanti a un pubblico scatenato e in adorazione. In scaletta pezzi ballabili come No Volverá, Hasta el Horizonte e Atlántico, solo per citarne alcuni.
Mentre attendiamo i Grizzly Bear, ci deliziamo (sempre sotto al Pitchfork stage) con l’esibizione di una raffinata artista francese, Melody Prochet e del suo progetto Melody’s Echo Chamber. La polistrumentista ci regala attimi di pura magia con un synth pop onirico e intimista; il suo fragile timbro vocale è perfettamente calato nel contesto, specialmente in pezzi come la delicata Bisou Magique, I Follow You, Some Time Alone, Alone e Be Proud of Your Kids.
Ritornati alla realtà, ci attendono sul palco Optimus i Grizzly Bear che non deludono minimamente le attese. Le danze si aprono alle 22.50 in punto con Speak in Rounds a cui fanno seguito Cheerleader, Yet Again, A Simple Answer, Gun Shy e la celebre Two Weeks: colpiscono parecchio, all’interno della loro proposta, gli effervescenti riff di chitarra e le geniali melodie vocali sapientemente cesellate dall’abilità del fuoriclasse Daniel Rossen, dominatore della scena anche nelle successive Half Gate e Sun in Your Eyes.
Usciamo da tale ‘esperienza mistica’ completamente storditi e decidiamo di assistere al live set di Four Tet, previsto sul palco Super Bock a mezzanotte e un quarto spaccate. L'etichetta di ‘elettronica contemporanea’ sta ormai stretta per abbracciare le mille sfaccettature di cui questo brillante artista è interprete e traduttore; anche sul palco Kieran Hebden dimostra una padronanza delle poliritmie e delle sovrapposizioni timbriche davvero fuori dal comune, sempre in bilico tra suggestioni techno e mondi lontani come jazz e musica folk. Il pubblico non cessa di ballare neanche per un attimo, intorpidito e completamente asservito ai climax dinamico-strumentali del compositore. Pare incredibile che nel giro di un’ora assisteremo alla perfomance di un certo complesso britannico…
E' da poco passata l’una e mezza ed ecco che fanno la loro comparsa sull’Optimus gli headliner della serata: i Blur. Si parte in quinta con Girls & Boys, perfetta apripista e ottima hit di ‘riscaldamento’ per poi passare a Popscene e al suo passo frenetico. Intanto Albarn provvede a ‘rinfrescare’ le prime file con l’acqua di alcune bottigliette ed è subito il turno di There’s No Other Way, con le chitarre a palla protagoniste e Albarn che rincara la dose di grinta accendendo gli animi dei presenti. Tocca quindi a Beetlebum, in cui purtroppo un coro gospel di quattro elementi si sente a malapena. Un inconveniente tutto sommato di poco conto, che non impedisce minimamente alla folla di scaternarsi al ritmo della seguente Trimm Trabb. Dopo Coffee & TV è la volta di Tender, con un pubblico coinvolto che immediatamente dà il via alla magia, partecipando ad un’emozionante intonazione collettiva del suo celebre refrain. Dopo l’altisonante Country House e la più frenetica Parklife, si procede con la malinconica End of a Century e la successiva This Is a Low, dedicata da Albarn al ‘popolo portoghese profondamente influenzato dal mare e roba simile!’. I ritmi si riequilibrano con la più lenta Under the Westway, durante la quale Albarn si accompagna al pianoforte, per poi proseguire sulle corde di For Tomorrow. Dopo The Universal infine è la celeberrima e attesissima Song 2 a chiudere in pompa magna una giornata davvero incredibile!
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Sabato 1° giugno
My Bloody Valentine
Ultima giornata che già reca in sè il sapore della nostalgia: sono ormai le 20.20 quando ha inizio il live delle leggende dell’alternative rock americano, i Dinosaur Jr. Tornato nuovamente alla ribalta l’anno scorso con il lavoro I Bet On Sky, il terzetto capitanato da J Mascis ha dimostrato ancora una volta di saper reggere le scene come pochi su una matrice stilistica di fondo che coniuga diligentemente l’hard rock americano anni ’80 da una parte ed un background chitarristico di stampo più tradizionale dall’altra: così, mentre c’è ancora luce e la folla diviene sempre più numerosa, vediamo scorrere tutti i principali successi della band; non mancano all’appello Feel The Pain, Freak Scene, The Wagon e la favolosa e personalissima cover di Just Like Heaven dei Cure a scaldare un pubblico già ben predisposto. La conclusione trova come guest sul palco Damian Abraham (cantante dei Fucked Up) sulla cover di Chunks, brano del gruppo hardcore Last Rights.
Sono le undici meno un quarto quando invece sul palco Optimus compaiono gli Explosions in the Sky: spesso considerati la controparte texana dei Mogwai, ci sembra piuttosto che sviluppino volumi e sensazioni sonore differenti, disegnando delle trame più dense e meno variegate timbricamente, ma non per questo meno ricche dal punto di vista espressivo. Un vero e proprio viaggio ultraterreno, costellato di impressioni ineffabili, quasi a fior di pelle, ci traghetta verso l’ignoto lasciandoci però delle linee guida di riferimento, un tracciato che ripercorre le tappe della loro carriera più che decennale cominciando con Yasmin The Light e proseguendo con un paio di brani per disco, tra cui Catastrophe and the Cure, la stupenda Postcard from 1952, The Birth and Death of the Day, Your Hand in Mine, Greet Death, Let Me Back In e la conclusiva The Only Moment We Were Alone. Un live epico e una performance davvero magnetica.
Ci troviamo da poco oltre la soglia della mezzanotte quando ci rechiamo presso il palco Super Bock per lo show dei Liars e le attese non vengono minimamente deluse. Raggiunte le prime file, ci rendiamo subito conto di trovarci in mezzo ad una festa, che vede come filo conduttore le sonorità lisergiche e travolgenti del loro ultimo lavoro WIXIW (uscito l’anno scorso per Mute Records). La proposta dei ‘bugiardi’ newyorchesi convince e non ci fa smettere di ballare neanche per un minuto.
A fatica e malconci (ma ampiamente appagati) ci riversiamo nuovamente verso l’Optimus dove c’è già una spasmodica attesa (ed una folla oceanica…) per gli headliner, i My Bloody Valentine. Purtroppo vi è una lunga attesa prima dell’inizio della loro esibizione e quando i quattro attaccano a suonare il primo pezzo, I Only Said, ecco una brutta sorpresa: la voce di Bilinda Butcher si sente in modo fievolissimo, in pratica una presenza fantasma. Nonostante i continui richiami del pubblico, la band continua a suonare ed inanella, uno dietro l’altro, i grandi successi che ne hanno determinato il sound e la fortuna. Quando è ormai chiaro che la band non ha alcuna intenzione di richiamare il tecnico del mixer, i presenti muovo la testa a tempo lasciandosi trasportare dalle note delle stupende When You Sleep, New You, You Never Should, Honey Power e Cigarette in Your Bed, fino a Only Tomorrow e Soon, probabilmente tra le tracce più riuscite della band irlandese: si continua con altre due canzoni ma, purtroppo, i quattro musicisti appaiono seccati, vagamente accademici e la distanza col pubblico sembra aumentare mano a mano che il concerto procede. Paradossalmente, il sound ipersaturo, le distorsioni leggendarie di Kevin Shields e la voce eterea della Butcher che hanno marchiato l’alchimia estetica della band questa volta non riescono a comunicare appieno l'identità della band, per un rendimento totale senz’altro da fuori classe ma non proprio al cento per cento.
Quando si conclude la sequenza finale, con Feed Me With Your Kiss, You Made Me Realise e l’ultima Wonder 2, una spiacevole sensazione pervade la platea: "Come, finisce tutto così?" Nessun bis, nessun ringraziamento e i My Bloody Valentine, come al risveglio da un sogno, sono già svaniti dietro al palco.
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