A fine luglio Milano si agita di una fretta diversa, quella di far presto le ultime commissioni, le ultime pulizie, le valigie e andare in vacanza: da Milano al solito si scappa, con la stessa frenesia con cui la si abita. Per chi resta, poco prima del caldo di agosto, i posti da frequentare di sera si riducono drammaticamente a un paio. Tra questi, il Carroponte di Sesto San Giovanni.
Al Carroponte a fine luglio si arriva con agilità, si parcheggia con nonchalance, si trascinano le ciabatte fino ai cancelli e si beve con calma l'ultima birra comprata al supermarket senza gli sguardi scocciati dei buttafuori. Nell'erbetta circostante sfumano le ultime note di un pezzo acustico cantato in portoghese, che senza googlare avrei difficilmente identificato come la musica di tale Rodrigo Amarante de Castro Neves (cantautore brasiliano membro altresì dei Los Hermanos, Orquestra Imperial e Little Joy). L'atmosfera è quella di un lento pomeriggio estivo di Caracas, i peggiori bar chiusi, il caldo appiccicoso, le zanzare anche. Non mi aspetto di trovare così tanta gente a dire il vero, c'è persino una piccola ressa non troppo energica per gli ultimi panini, i pizzaioli scherzano tra di loro e c'è una specie di clima di festa pigra. "Io odio le zanzare" è la frase più mormorata, e a fine comizio del Pd (in realtà sarebbe la "Festa nazionale di sinistra"), mentre aspettiamo da più di mezz'ora una margherita, un signore molto gentile ci spruzza addosso di sua sponte un po' del suo Autan, "che tanto ormai.." e ride.
Siamo tutti qui per Devendra Banhart, l'ex capellone con l'eyeliner e i braccialetti per intenderci, il fricchettone che suonava psych-avant-folk come esponente della New Weird America, insomma l'eccentrico cantautore texano cresciuto tra il Venezuela e la California scoperto per caso dalla moglie di Michael Gira degli Swans, che pensò bene di metterlo sotto contratto per la Young God Records.
Da dietro una staccionata, mentre mi faccio spazio tra la folla incredibilmente fitta, sento Devendra che fa lo sforzo di presentarsi al pubblico con già una buone dose di scazzo addosso, espirando di Mala-voglia un: "You'll be asking yourselves why I'm here in Italy tonight..". E me lo chiedevo anch'io infatti, ma non riesco a capire il perché, la voce si perde nel numero delle ordinazioni urlate. Così do per scontato si tratti del suo ultimo album, Mala.
Devendra attacca subito una Golden Girls che spiega qualcosa: "You believe in visions and prayers, but you don't believe in what's really there.. get on the dancefloor" – ma più che un invito pare un flebile tentativo di autoconvincimento. A seguire, Baby, Für Hildegard von Bingen e Mi Negrita, tutte tratte da Mala, e tutte inanellate con la stessa voglia che si può avere di andare a fare jogging in agosto subito dopo pranzo. Io intanto ho finito le cartine e non posso neanche consolarmi con una sigaretta. I balletti falsamente nervosi e i falsetti quasi isterici riprendono vigore solo in Little Yellow Spider (vecchio successo risalente al 2004), per poi tornare a spalmarsi in una macchia di noia e gargarismi casual costituita – nell'ordine – da: una versione sgangherata di Seahorse, una scazzata di Cristobal Risquez, una poco convinta di Your Fine Petting Duck e una annoiata di Hatchet Wound, per finire con un contentino per il pubblico ormai un po' stanco anche lui di fingere entusiasmo, ovvero una Carmensita raffazzonata.
Eppure è fine luglio, la gente balla ancora, ha voglia di fare qualcosa e divertirsi nel caldo di Milano e ha pagato ben 18 euro per ascoltare Devendra Banhart il semi-venezuelano live al Carroponte. Con leggero disappunto di tutti, persino dei ragazzi più giovani davanti a me, che nella solidarietà generata dal tedio condiviso mi hanno anche regalato diverse cartine, dopo neanche un'oretta scarsa di schitarrate dove a tenere in piedi la baracca erano soprattutto gli altri musicisti, le luci del palco si spengono e dietro agli strumenti rimane un vuoto che sa di Caracas a notte fonda. I fan più fedeli non rinunciano però a chiedere more, e Devendra si lascia desiderare. Torna dopo qualche minuto per eseguire un ultimo pezzo, poi biascica un "ciao" e un "grazie" con tale noncuranza da sfiorare una pronuncia romanesca perfetta, e se ne va.
Il pubblico si dirada non senza saudade, e tra me e me penso che Devendra Banhart se la tira davvero un po' tanto, e che sono di nuovo senza cartine. Verso l'uscita mi ferma un gruppo di tre persone curiosamente allegre: una ragazza dall'aspetto orientale dice di venire dall'Australia e mi riempie di Rizla corte prese all'aeroporto. Sorride emozionata mentre ammette di trovare Devendra "molto sexy" perché skinny. "Come Lou Reed?" – chiedo. Loro fanno spallucce: "No, David Bowie.." – e siamo in fondo tutti contenti perché almeno si può fumare un'altra sigaretta.
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Setlist:
Golden Girls
Baby
Für Hildegard von Bingen
Mi Negrita
Little Yellow Spider
Seahorse
Cristobal Risquez
Your Fine Petting Duck
Hatchet Wound
Carmensita
Quédate Luna