Il freak losangelino ci regala il suo |
Lo confesso: non sono mai stato un grande fan di Ariel Pink. Nonostante il debutto su 4AD di due anni fa sia stato accolto come la consacrazione di un “grande eccentrico” della musica moderna, a me è sempre sembrato “grande” solo a metà, troppo impegnato ad annacquare le sue buone idee (che ci sono, sicuramente) in un magma di citazioni e stranezze che fanno godere i recensori, ma annullano il potenziale pop delle sue canzoni. Dal vivo poi, la sensazione di trovarsi davanti ad un freak fin troppo preso nei suoi deliri musicali, era stata confermata da un set instabile, capace di divertirti per cinque minuti e annoiarti a morte per quaranta.
Tutto questo viene essenzialmente confermato dal nuovo album Mature Themes, che amplifica ulteriormente tutte le ottime qualità di Pink e dei suoi Haunted Graffiti, circoscrivendo nella parte centrale le idee più discutibili. Il disco spara subito le sue cartucce migliori: dopo la divertente apertura di Kinski Assassin (pensate al Brian Eno ironico e irriverente di Here Come the Warm Jets) e la breve esplosione elettrica di Is This the Best Spot?, la title-track si segnala da subito come uno dei brani migliori mai scritti dal genietto di Los Angeles: per la prima volta in questo brano Pink sembra rimuovere la sua maschera ironica per cullarci con una melodia immediata ed emozionante, e una performance vocale sincera (“I want it to be good” ripete nel ritornello), che mette a nudo le sue emozioni come mai prima d’ora. Un instant classic, che farà dimenticare rapidamente la Round & Round di due anni fa, e serve da preludio per l’egualmente emozionante Only in My Dreams, dove l’influenza sixties (le chitarre alla Byrds/R.E.M.) serve ad accentuare il tema onirico espresso dal testo.
Ma visto che siamo di fronte ad un album di Ariel Pink, non potrebbe essere tutto così facile: nella parte centrale del disco l’atmosfera si fa allo stesso tempo più inquietante e più grottesca, con la palma della stranezza da assegnare a Schnitzel Boogie e alle sue voci distorte e zappiane. Non tutto funziona: Early Birds of Babylon non riesce a sostenere l’interesse per cinque interi minuti, mentre Driftwood si regge su un giro di basso e poco più; meglio invece l’incubo disco-erotico di Symphony of the Nymph (“She’s a nympho at the discotheque” è uno dei versi che rimangono più impressi) e le tastiere new wave di Pink Slime.
In tutto Mature Themes si nota una minore influenza anni ’80 e un tentativo di scrivere canzoni più coerenti rispetto ad alcuni scatenati pastiche di Before Today: nonostante da un brano all’altro si salti costantemente tra i generi, almeno questa volta i generi non sono stati compressi nella stessa canzone, come succedeva con L’estat e Menopause Man nel disco precedente. Qui, sia quando tenta la carta della canzone tradizionale (Farewell American Primitive), sia quando compone una delle sue classiche ballate notturne per synth (Live It Up) Pink dimostra di avere una grande padronanza della forma canzone, quasi fino alla fine del disco.
Sul finale ecco infatti la svolta stilistica: la lunga Nostradamus & Me si compone di 7 minuti eterei, solcati dalla voce sussurrata di Pink, mentre la cover di Donnie e Joe Emerson piazzata in chiusura, Baby, lo vede darci la sua migliore imitazione di un crooner soul. E’ un finale inatteso ma decisamente benvenuto, dopo il tour de force dei brani precedenti, e chiude l’album con un grado di indefinitezza che ci fa ben sperare per il futuro.
Dopo la consacrazione di Before Today, Mature Themes sembra la degna continuazione di un percorso musicale strano e affascinante, che ha portato il freak di Los Angeles vicino alla fama, senza cambiare di una virgola il proprio approccio alla musica. Parlare di “normalizzazione” nel caso di Ariel Pink sembra veramente fuori luogo, dato il personaggio, ma Mature Themes lo mostra sembra più sicuro dei propri mezzi e sempre più in grado di far funzionare (quasi) tutte le idee che affollano la sua mente iperattiva.