A volte vale la pena cambiare. Deve essere quello che ha pensato Dan Bejar, da più di quindici anni leader dei Destroyer, dopo l'uscita del suo ultimo acclamatissimo album Kaputt, che l’ha trasformato da onesto mestierante nascosto in seno al supergruppo New Pornographers ad artista chiacchierato dalle maggiori pubblicazioni indie. Tutto merito del nuovo vestito musicale dato ai suoi brani: un mix di influenze soft rock e disco anni ’80, tra Steely Dan e Sade, condito da languidi fraseggi di sax e tromba, fluide bassline di estrazione funk e frizzante batteria elettronica. In poche parole: tutto quello che fino a qualche anno era assolutamente un-cool in ambito indie, rimasticato e presentato come nuovo per una generazione che certo non ricorda gli originali.
Ecco così che sotto il palco del Radar Festival, in una afosa serata di fine luglio, sono molti i ventenni venuti a farsi cullare dalle atmosfere decadenti della band canadese. Sul palco Bejar conduce un ensemble numeroso, composto da sette elementi tra cui spicca l’altro New Pornographer John Collins al basso: a loro il compito di tradurre dal vivo quasi l’intera scaletta dell’ultimo album, visto che Bejar si limita per tutto il concerto a intonare i suoi lunghi testi con lo sguardo rivolto verso il basso, senza mai incrociare lo sguardo con il pubblico.
Non era facile rendere coinvolgente dal vivo il sound ostentatamente sintetico di Kaputt, ma la band riesce nell’ammirevole impresa: scomparse quasi completamente le batterie elettroniche, i brani vengono portati avanti da una sezione ritmica precisa, che disegna gli scenari su cui vanno a ricamare tastiere, fiati e chitarra. Pochissimo lo spazio concesso ad interventi pre-registrati o campionati, molto invece alle divagazioni strumentali, durante le quali il buon Dan non trova di meglio che accucciarsi sul palco e tracannare vino rosso. Un’attitudine che non ti aspetterresti da un artista ormai maturo e abituato a calcare i palchi internazionali, ma che sembra legata più ad una timidezza profonda che ad una serata no: nel giro di un paio di brani basta la disco raggelata di Savage Night at the Opera a far ballare il pubblico, che si scioglie del tutto con lo scintillante soft rock della title-track.
Nel mezzo c’è spazio per momenti buoni (l’evocativo flauto traverso che guida Suicide Demo for Kara Walker), e meno buoni (un estenuante esperimento sonoro del trombettista, che per dieci minuti cerca inutilmente di creare suoni d’atmosfera mentre il resto della band lo guarda sconsolato). Il sound volutamente anni ’80 tende ad avere la meglio su alcuni brani, spingendoli ad assomigliarsi anche in maniera eccessiva, ma l’effetto finale non è poi così spiacevole: evidentemente il vestito nuovo che Bejar ha cucito per le sue canzoni è ancora un po’ stretto in alcuni punti, e riesce a malapena a contenere le mille influenze che da sempre contraddistinguono l’opera del poliedrico cantautore, finendo a volte per appiattirne le caratteristiche migliori.
Un paio di recuperi dal passato recente riescono comunque a fare capolino tra i brani nuovi: è il caso del gran ritornello singalong di European Oils e della lunga Rubies, che va a concludere il set nel modo migliore. Tornati sul palco per un acclamato bis, la band suona altri due lunghi brani, Libby’s First Sunrise e l’indefinibile pastiche Bay of Pigs: se già su disco questo esperimento “ambient disco” da oltre dieci minuti sembra un oggetto alieno rispetto agli altri brani, a maggior ragione dal vivo il suo ritmo ondivago fatto di pianissimo e fortissimo, pause e ripartenze, ha un effetto decisamente straniante. Per molti minuti Bejar mormora il lungo testo tra un’oasi di suono e l’altra, la sua presenza scenica come unico punto di attenzione in grado di mantenere vivo l’interesse del pubblico. Poi all’improvviso il ritmo riparte e tutti tirano un sospiro di sollievo: il pubblico riprende a ballare e sembra allontanare le vibrazioni più pesanti, poco adatte ad un concerto estivo come questo.
In conclusione Bejar e la sua crew hanno superato brillantemente la prova live, così come ci si poteva aspettare da un musicista con la sua esperienza. E’ bello sapere che il suo particolarissimo art-rock ha trovato finalmente un pubblico, ma è inevitabile chiedersi quali saranno le prossime mosse: continuerà il revival anni ‘80 di Kaputt o tornerà su territori più rock come nelle precedenti release? Quello che è certo è che qualunque vestito indosserano i prossimi pezzi, porteranno sempre il segno della sua visione artistica singolare e assolutamente riconoscibile. Da vero autore.
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