Al terzo album la band del New Jersey raffina ulteriormente le sue chitarre scintillanti, mentre la poetica dei testi si fa sempre piu' adulta e riflessiva.8/10Uscita: 4 marzo 2014 Domino Records Compralo su Amazon: Audio CD | Vinile |
Estate 2009, New Jersey. Seduti sul tetto di una graziosa villetta prefabbricata di Ridgewood, pacifica cittadina di 25.000 abitanti ad una quarantina di km a nord di New York, quattro giovanotti si godono il tiepido sole di una mattinata d'agosto. Accompagnati dal piacevole fruscio dell'aria che si insinua tra le foglie degli aceri, strimpellano accordi ed arpeggi su di un paio di chitarre acustiche ed intonano strofe sulle loro avventure e disavventure estive. Questa, o qualcosa di simile, mi immagino come possibile genesi del delizioso album d'esordio dei Real Estate, distribuito al tempo dalla piccola ma rinomata casa discografica indipendente Woodsist.
Dal 2009, molto è cambiato per i quattro di Ridgewood: dai tetti della placida suburbia americana sono infatti approdati su Domino Records, influente etichetta londinese che ha messo a loro disposizione mezzi ben più ampi che in passato per registrare le loro cronache sonore. Come già si percepiva nel precedente Days (2011), in questo nuovo Atlas una notevole crescita compositiva si è accompagnata ad un considerevole approfondimento tematico dei testi. Con il tiepido timbro vocale color caramello che lo contraddistingue, il cantante Martin Courtney è ora molto più interessato a narrare dello scorrere del tempo, dei rimpianti che lo perseguitano come fantasmi ostinati, del perenne problema di comunicare con gli altri, dell'ansia di invecchiare insoddisfatti; insomma problematiche piuttosto complesse, ma affrontate con invidiabile semplicità ed una più che mai ispirata vena poetica che mantiene le canzoni come sospese su un piano magico, separato dalla mera materia della realtà.
Come già anticipato, i meriti nell'evoluzione dei Real Estate non vanno però solamente attribuiti al reparto canoro, ma soprattutto a quello strumentale. La gamma di suoni ed effetti è sempre più o meno la stessa ma, grazie all'esperienza, è qui portata quasi alla perfezione. La nebbiolina lo-fi si è diradata e il gusto per le memorabili melodie arpeggianti del chitarrista solista Matthew Mondanile, impegnato anche nel side-project Ducktails, è all'apice della fantasia creativa. Le sue composizioni risplendono ed incantano come il flauto magico per tutta la durata di Atlas: l'onirico riff di April's Song, le fluttuanti note di How Might I Live, i soffici intecci armonici di Navigator sono solo alcuni dei numerosi momenti da pelle d'oca che si imprimono nella memoria uditiva dell'ascoltatore.
Nonostante affronti tematiche universali, decisamente più vaste e labirintiche di quelle che interessavano la band nel recente passato, Atlas, rispetto all'esordio di cinque anni fa, non è tanto più depresso, triste o oscuro, bensì enormemente più riflessivo, più adulto, ed in ultimo, infinitamente più curioso nei riguardi della vita e dei suoi insondabili misteri. Per una giovane band, ma con un bagaglio di successi già considerevole alle sue spalle, non si poteva sperare di meglio: bentornati!