Nome: Push Button Gently
Città: Como
Genere: Psichedelia / Grunge
File under: Verdena, The Beatles, Nirvana, Mogwai
Sito web: http://www.pushbuttongently.com
La sensazione che si ha ascoltando Fuzzy Blue Balloon (Moquette Records, 2013), secondo long-playing per i comaschi Push Button Gently, è quella di trovarsi di fronte ad un frullatore musicale che mischia sapientemente anni '70 e '90, scegliendo volutamente di escludere quella parte di anni '80 caratterizzata da languori monocromatici post punk e dark wave, che oggi vanno tanto di moda specialmente oltremanica.
Quella del quartetto è una ricerca raffinata all'interno di un versante musicale schiettamente sperimentale: una scelta che risulta essere naturale e ben organizzata, senza mai suonare barocca o fuori luogo. Il gruppo comasco riesce ad essere elastico negli arrangiamenti, scegliendo un giusto equilibrio di dinamiche (basso e batteria sempre molto omogenei e fluidi), valorizzato anche da un ottimo incastro tra le due chitarre: le parti non risultano mai ripetitive o “sovrapponibili”, tanto che gli strumenti sembrano seguire due piste diametralmente diverse, creando un efficace effetto di straniamento.
La breve traccia di apertura, Weirdo Will, ci introduce subito nel già citato ambiente sperimentale, talvolta intessuto di dissonanze realizzate tramite l'utilizzo non convenzionale degli strumenti (chitarra e modulazioni in primis). Questa breve introduzione spalanca le porte di un mondo onirico, un viaggio semiallucinato all'interno di uno stato di coscienza alterato, come nel riuscitissimo secondo pezzo The Bottle: atmosfere tipicamente anni '60 e '70 (l'arpeggio iniziale accompagnato dall'incastro armonico di voci sembrano ricordare i Beatles più lisergici e la psichedelia americana di fine sixties) vengono sapientemente mischiate con sonorità anni novanta, con cantato e batteria che evocano i Nirvana, senza tuttavia dimenticare le suggestioni sperimentali dei Radiohead.
La terza traccia, Tarpit Cock and the Bazoukie, segue uno sviluppo molto più lineare della precedente e, ancora una, volta non mente sulle influenze del gruppo: ad un riff iniziale che ricorda Ritchie Blackmore dei Deep Purple segue una strutturazione del pezzo che risponde a tipici canoni contemporanei, evocando lo spirito dei Franz Ferdinand nelle voci e nelle dinamiche molto strette con riff di chitarra semplici e ripetitivi. Shed, il quinto brano dell'album (preceduto da una brevissima traccia noise, Incoming), sembra confermare ulteriormente l'approccio combinatorio del gruppo per quanto riguarda le loro influenze: l'ampia e ariosa introduzione, caratterizzata da un morbido arpeggio di chitarra accompagnato da suoni d'atmosfera e da una decisa quanto soffusa linea di basso, ricorda alcuni passaggi da requiem caratteristici dei penultimi Verdena (le lunghe divagazioni di brani come Sotto prescrizione del dottor Huxley o Il Gulliver). La voce, anche in questo caso, risulta essere in perfetta linea con l'arrangiamento del pezzo, non risultando mai invasiva, neanche quando la struttura musicale le consentirebbe di dominare sul tutto.
Nonostante l'influenza molto evidente della psichedelia ai suoi albori, i Push Button Gently rimangono tuttavia ben saldi sulle loro radici anni '90. Brani come Things Coming Out of My Head e Softie the Goo confermano in maniera molto evidente questo stato di cose: il primo è una ballad dal sapore “metropolitano e decadente” che riprende le sonorità dei Red Hot Chili Peppers nel loro periodo forse più aureo, quello di Californication; il secondo ci riporta invece alle origini del gruppo, quando la loro attività musicale era essenzialmente incentrata sull'improvvisazione, con uno strumentale che si inserisce in maniera matura nel filone post rock di gruppi come Mogwai e Sigur Rós.
In definitiva il lavoro dei Push Button Gently appare come il frutto maturo di una sapiente scelta musicale fondata su buona abilità tecnica, inventiva e attitudine a creare atmosfere sospese e rarefatte. Dal lavoro si evince che i singoli componenti del gruppo sono anche degli ottimi ascoltatori e questo, va da sé, risulta molto importante nel momento della creazione musicale. L'unico appunto che si potrebbe fare alla band comasca è la mancanza di “coraggio” nel cantare i propri brani in italiano. Non si tratta di mero provincialismo o, peggio, di autarchia musicale: a mio parere la scelta della lingua italiana avrebbe conferito al lavoro un'originalità tutta sua, dal momento che si sarebbe svincolato da molta produzione analoga anglofona; allo stesso modo sarebbe stato un ottimo modo per porsi in controtendenza anche rispetto a molti gruppi che cantano in italiano, il cui stile è sempre più incentrato su arrangiamenti molto semplici e orecchiabili, che sembrano studiati a tavolino pensando principalmente alla vendibilità del prodotto.