Un passo avanti e uno indietro. |
In un’immaginaria classifica dei follow-up più difficili di tutti i tempi, il nuovo album degli Animal Collective starebbe sicuramente in cima alla lista. Dopo essersi conquistati lentamente una fan base sempre più ampia con gli album pubblicati per la FatCat, la band è letteralmente esplosa nel 2009 con Merriweather Post Pavilion, uno degli album più osannati degli anni zero, capace di essere nominato da subito disco dell’anno da molte pubblicazioni nonostante la sua uscita a gennaio. Quel lavoro rappresenta ancora oggi uno dei vertici assoluti raggiunti dalla psichedelia, uno dei rari LP recenti realmente indefinibili e capaci di suonare in modo diverso ad ogni ascolto (come ben rappresentato dalla sua memorabile copertina).
E’ naturale che, dovendo dare un seguito ad un lavoro così famoso, il quartetto di Baltimora (di nuovo con la partecipazione stabile del chitarrista Deakin, assente sull'ultimo disco) abbia cercato in tutti i modi di cambiare strada, in modo da sfuggire al fuoco di fila di chi inevitabilmente paragonerà il nuovo album al suo predecessore. E Centipede Hz è decisamente qualcosa di diverso rispetto a MPP: la spaziosità liquida del suono perfezionata sull’album precedente viene accantonata, mentre tornano in primo piano le canzoni, in modo simile a quanto succedeva su Strawberry Jam. Ma non si tratta di un ritorno al passato: Centipede Hz ha in comune con Merriweather la produzione dettagliatissima (ancora una volta a cura di Ben Allen), che riesce a tenere insieme anche i pezzi più concitati, giusto un attimo prima che sprofondino nel caos e nella cacofonia.
Secondo quanto dichiarato da Noah Lennox (aka Panda Bear), la band ha cercato quanto più possibile di tenersi fedele al suono delle performance live, durante le quali alcuni di questi brani sono stati presentati per la prima volta, a partire dallo scorso anno: scompaiono così le percussioni elettroniche, sostituite da un approccio molto più rock, che viene evidenziato dalle prime due tracce (Moonjock e il singolo Today’s Supernatural). Questi brani aprono l’album nel migliore dei modi, coniugando l’esuberanza sonora tipica degli AC in un contesto sempre più orientato verso la forma-canzone. In entrambi i brani le melodie delle voci di Panda Bear e Avey Tare sono in primissimo piano rispetto alla musica, ma sembrano sempre sul punto di sfaldarsi nell’isteria (il la-la-la di Today’s Supernatural, il ritornello a squarciagola di Moonjock), con il pregio di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore anche dopo ascolti ripetuti.
L’impressione di trovarsi di fronte ad un grande disco viene confermata anche dai successivi brani: in Rosie Oh Panda Bear imbastisce una delle sue consuete melodie anni ’60, accompagnato da chitarre scheletriche, che sembrano ingaggiare una lotta senza quartiere per rubare spazio all’elettronica da cui sono circondate. Ma il vero capolavoro è rappresentato dall’accoppiata Applesauce/Wide Eyed: il primo brano, guidato da un morbido organo, si segnala per una delle migliori performance vocali di Avey Tare, mentre nel secondo il redivivo Deakin fa sentire la sua voce per guidare una lunga cavalcata elettronica, attraversata da synth subliminali. E’ il momento in cui gli Animal Collective fanno quello che sanno fare meglio, stordire l’ascoltatore con un suono che sembra circondarlo da tutte le direzioni, lasciandolo alla deriva in un magma sonoro senza punti di riferimento.
Dopo aver sparato le cartucce migliori ad inizio disco, la band sembra prendersi una piccola pausa nella parte centrale: né Father Time, né New Town Burnout lasciano particolari segni, anche se la seconda ha il merito di portare uno dei rari cali di tensione in un album tiratissimo, prima che l’accoppiata Monkey Riches/Mercury Man riporti in scena il massimalismo sonoro tipico degli AC. Sul finale ecco ritornare l’ispirazione dei momenti migliori: la splendida Pulleys serve da camera di decompressione dopo gli eccessi dei brani precedenti. Anche in questo caso è Panda Bear a guidare le danze, accompagnato da un organo acquatico che sfocia direttamente nella chiusura di Amanita. Nonostante la melodia orientaleggiante della chitarrra rappresenti una gradita novità, il brano non convince del tutto: siamo ben lontani dalla chiusura indimenticabile di Brothersport.
Penso sia normale rimanere un po’ delusi da un disco così atteso: da qualunque lato lo si osservi Centipede Hz è un coraggioso tentativo di staccarsi dalla pesante eredità dei dischi che l’hanno preceduto, un passo avanti e un passo indietro, come nella migliore tradizione dei follow-up. Come succedeva con Merriweather, il disco è talmente stratificato da sfuggire alle facili classificazioni, e sembra guadagnare con ogni ascolto. Quello che è certo però è che se la scelta di tornare ad un suono più “live” ha reso più “umane” le emozioni nascoste dietro alle loro canzoni, sono pochi i brani che riescono a raggiungere il potenziale poetico evidenziato in passato da My Girls o Bluish. E’ possibile che i nuovi pezzi debbano essere giudicati proprio dal vivo, dove sono stati creati, e dove, infatti, i brani di Merriweather non brillavano, ma in generale il nuovo approccio sembra aver tolto un po’ di smalto alla vena sperimentale della band, spostandoli su territori più convenzionali.
Inoltre l’album sembra meno coeso rispetto al solito: gli AC sono sempre stati più bravi a lavorare su un mood complessivo piuttosto che a definire i singoli brani, e questa volta non tutti frammenti del puzzle sembrano essere al posto giusto. Ciononostante, siamo pur sempre di fronte a oltre 50 minuti di suoni inusuali, assemblati in maniera squisita dall’ultimo grande team di visionari pop moderni, con almeno 5-6 gemme di valore assoluto. E direi che, per questa volta, ci possiamo pure accontentare…
Potete ascoltare Centipede Hz in streaming dal sito della band.