La band di Portland torna con il suo lavoro piu' rilassato e meno coeso: non mancano le grandi canzoni, ma questa volta non tutti i colpi vanno a segno.7/10Uscita: 19 gennaio 2015 Rough Trade Compralo su Amazon: Audio CD |
Quando partecipi alla colonna sonora di un colossal (Hunger Games), hai un cameo nella serie animata più famosa del mondo (The Simpsons) e il tuo ultimo disco, The King is Dead, ha un notevole riscontro commerciale (N.1 nella classifica americana stilata da Billboard), si corre il rischio di impigrirsi e perdere quella indefettibile verve creativa che non può abbandonare l’artista in fase compositiva.
Per fortuna loro e dei fan, i Decemberists nonostante tutti questi riscontri sono riusciti a regalarci un'ulteriore perla che va ad aggiungersi agli altri eccellenti lavori della band dell’Oregon. Il loro settimo disco in studio What a Terrible World, What a Beautiful World, si colloca a metà strada tra l’ambizioso The Crane Wife (2006) e il più pragmatico The King is Dead, attenuando le influenze più puramente americane di quest'ultimo per tornare a mostrare alcune delle eccentricità che coloravano i loro primi dischi.
Il lavoro parte forte con una delle canzoni più belle di tutta la tracklist The Singer Addresses His Audience, una sorta di introduzione nella quale il cantante Colin Meloy si rivolge direttamente al pubblico, come se fossimo all'inizio di uno spettacolo teatrale. Musicalmente, ci troviamo di fronte alla classica forma-canzone dei Decemberists: folk cantautorale arricchito da archi e doppie voci chimicamente assemblate, con un crescendo travolgente che parte da una semplice linea di chitarra acustica per sfociare in acrobazie di batteria, chitarre elettriche, piano, organo e cori.
Molto orecchiabile risulta la successiva Cavalry Captain, che scorre via che è un piacere tra arrangiamenti di fiati e un ritmo trascinante. Come spesso succede per Meloy e compagni, orecchiabilità non è qui sinonimo di banalità, ma di capacità espressiva e padronanza dei propri mezzi e delle proprie idee, incanalate in modo perfetto per risultare credibili e fruibili allo stesso tempo. Inoltre entrano in gioco anche una serie di riferimenti del passato: la successiva Philomena ricorda un connubio tra l'approccio british dei Kinks e le spiaggie californiane dei Beach Boys, mentre la riflessiva Lake Song sembra quasi un tributo a Nick Drake, con l'aggiunta emozionale di piano, archi e contrabbasso. Tuttavia la vera innovazione dell’album è quella di affidarsi maggiormente a sonorità elettriche rispetto al passato, facendole dialogare con il sound originale del gruppo: il folk che incontra il pop-rock dà vita a una cifra stilistica molto vicina ai R.E.M. più intimisti, e il singolo Make You Better ne è l’esempio lampante.
La parte centrale del disco mette in luce un'influenza blueseggiante assolutamente inedita ('Till the Water's All Long Gone e Carolina Low), che in verità non convince fino in fondo. Meglio va con The Wrong Year, che però apre il passo alla seconda parte del disco, meno coesa e convincente. Il pezzo continua sulla scia orecchiabile dei precedenti, tra riff minimali e arrangiamenti sinuosi. Lo si potrebbe definire banalmente indie folk, ma è una composizione di pregevole fattura che andrebbe ascoltata in loop. All'appello del classico menu servito dalla band di Portland mancherebbero a questo punto solo le influenze più legate alla tradizione folk anglo-americana, che vengono puntualmente servite tra la fisarmonica di Better Not Wake the Baby (un divertito riferimento alla dura vita da neo-papà di Colin Meloy), i violini country di Anti-Summersong e la filastrocca a rima baciata di Easy Come Easy Go: tutti brani realizzati con gusto ma non esattamente innovativi né memorabili, e che rischiano di passare inosservati all'interno di una scaletta così ricca.
Lo stesso problema appare evidente anche in Mistral, ballad roots sospesa tra echi di Dylan e melodie rarefatte. Una canzone meditabonda con punte folk, cori pop e ritornello da hit parade, che pecca nell'utilizzare una forma canzone fin troppo abusata, con un eccessivo accostamento al passato. Meglio a questo punto il minimalismo per chitarra acustica e armonica di 12/17/12 (ispirata ai tragici fatti di Newtown già soggetto di un brano sull'ultimo album di Mark Kozelek/Sun Kil Moon) e il gran finale A Beginning Song. La final track ha un andamento in crescendo, si parte con chitarra e voce per poi far inserire ad uno ad uno tutti gli altri strumenti, che si fondono lenti e trovano il loro preciso incastro come in un puzzle, fino all'esplosione finale.
What a Terrible World, What a Beautiful World non sarà forse il lavoro migliore dei Decemberists e di sicuro solo i posteri potranno dare un giudizio preciso; tuttavia il dato di fatto è che le canzoni si lasciano ascoltare e apprezzare anche senza la solita immediatezza che ha portato in auge la band. Maggiori poi sono gli ascolti e maggiori sono i particolari che si riusciranno a scorgere in ogni traccia, quindi maneggiate il disco con cura e siate pazienti nello scandagliare le 14 canzoni che compongono la lunga tracklist, ricercando la bellezza tra le pieghe degli arrangiamenti e dei riff: con un po' di pazienza si sveleranno alle vostre orecchie melodie soffici, capaci, ancora una volta, di curvare tempo e spazio e condurvi in altre dimensioni.