Dopo aver ospitato la "mini-celebrità" di X Factor An Harbor nella scorsa puntata, questa volta le Indiemood Sessions sono dedicate a una validissima proposta della quale vi abbiamo già parlato qualche tempo fa: il duo padovano Green Green Artichokes, che ci suona un brano come al solito sulla barca restaurata dall'associazione Il Caicio.
Qui sotto li potete vedere a spasso per i canali di Venezia nel video realizzato da Indiemood Press Office; a seguire trovate anche la nostra intervista con Paolo e Stefano: buona visione e buona lettura!
Ciao ragazzi, parlateci un po' della vostra storia: come nasce il progetto Green Green Artichokes? Avevate delle esperienze musicali precedenti alle spalle?
P: Entrambi veniamo da precedenti esperienze, anche se molto diverse tra loro. Stefano ha suonato più strumenti (chitarra e voce, basso e batteria) in contesti differenti, tra tutti i Pensione Garibaldi, come batterista, e la band reggae Ziliota Roots come chitarrista. Io invece ho suonato per molti anni negli F for Fake, un gruppo post/indie rock, inizialmente come bassista e poi "farfisista", se mi passi il termine. Ci conoscevamo già e ci siamo rincontrati per caso ad un concerto di Cristina Donà nell'estate del 2012: chiacchierando dei nostri progetti musicali gli ho proposto se aveva voglia di contribuire a mettere in pista alcune mie idee, che sentivo l'esigenza di proporre in giro. A lui sono piaciute subito e in un paio di prove abbiamo già realizzato che la cosa poteva funzionare bene.
Ascoltando le vostre canzoni si ha come la sensazione di essere trasportati indietro nel tempo, soprattutto negli anni '60 e '70. Quali artisti di quella scena hanno segnato di più la vostra crescita musicale?
P: Ci fa molto piacere che tu lo noti, per entrambi è un riferimento importante. Per Stefano la musica di quegli anni è stata fondamentale nonché molto formativa, partendo da Beatles, Kinks e molti altri protagonisti del beat inglese, fino ad arrivare a cantautori rock come Neil Young o più psichedelici come Tim Buckley. Anche il blues è una sua grande passione, e le sue derivazioni, ad esempio i Doors, che ha tra l'altro tributato (alla batteria) in una cover band. Io invece ho scoperto queste sonorità più tardi, direi che tra i miei preferiti dell'epoca ci sono sempre Tim Buckley, Neil Young, ma anche Beach Boys, Syd Barrett e i primi Pink Floyd, Scott Walker e Pretty Things.
Continuando a parlare di questo panorama “storico”, oggi stiamo vivendo una vera e propria rinascita di quegli anni, penso sia alla riscoperta della psichedelia in ambito più strettamente rock, sia al recupero di un certo tipo di cantautorato che potrebbe essere avvicinato anche alla vostra attitudine. Pensate che questa sia una tendenza passeggera o qualcosa che potrebbe segnare un punto importante nel percorso musicale dei nostri giorni?
S: Per me potrebbe essere entrambe le cose, vista l'attitudine del mercato musicale a sfruttare l'effetto più esteriore di questo tipo di revival, come potrebbe dal punto di vista cantautorale influenzare positivamente una nuova ondata di autori
P: Concordo anche io con Stefano, non si capisce mai bene quanto è una moda o trovata del momento, e anche la gente ci gioca molto ormai con queste cose: il festivalino cool, la camicetta vintage, i filtri instagram, mi sembra spesso tutto tanto superficiale. Se poi si va a vedere l'impatto di questa riscoperta negli autori che sono in grado di dire qualcosa di importante, penso che stia dando parecchi frutti, ed era anche ora a parer mio
Voi, personalmente, come vi rapportate al vostro genere? Ad esempio ascoltando una canzone come On the floor, si ha l'impressione che vi piaccia contaminare quella matrice di cui parlavamo prima con attitudini e sonorità più vicine (almeno cronologicamente parlando) a noi. Quindi vorrei chiedervi, in che modo cercate di dialogare con una tradizione che ormai è ben consolidata?
S: Molto naturalmente mi sento di dire che siamo passati entrambi, per ragioni anagrafiche, attraverso gli anni 90 e primi 2000, e abbiamo quindi assorbito molto di quelle atmosfere musicali, in cui peraltro già si coglievano chiaramente molte contaminazioni in generale, anche del passato.
P: Per me lo scrivere è un processo inconscio pieno di riferimenti e influenze, quando mi chiedono "che musica fai" non so cosa rispondere di preciso, e chiedo a mia volta "a te cosa sembra?". Direi che sono più forti le influenze indie e alternative rock/folk (anche qualcosa del post rock), ma alla fine sono, e siamo entrambi, sempre molto legati alla melodia dei pezzi, ed è lì che saltano fuori poi inevitabilmente anche un certo tipo di cantautorato e gusto per le armonizzazioni. Penso ad autori attuali come Smog/Bill Callahan, The Go-Betweens o Sleater-Kinney, o anche ai cori tipici del beat o "ululati" della psichedelia. Per tornare alla canzone a cui ti riferisci credo ci sia una buona influenza Radiohead.
Quali progetti avete in cantiere per il prossimo futuro?
P: Siamo in procinto di registrare una decina di pezzi in studio. E' un passo importante, finora abbiamo "resistito" con un demo registrato autonomamente (in quello che scherzosamente chiamiamo "Corner Studio", ma che in realtà è la nostra dimensione domestica) e abbiamo preferito puntare più ai live, per consolidare il suono e curare l'incastro e la coesione dei singoli elementi che compongono la nostra musica. Ora però sentiamo di poterci appoggiare al lavoro fatto in questi ormai quasi 3 anni, e abbiamo l'esigenza di confrontarci con una registrazione che faccia finalmente emergere al meglio il nostro percorso di ricerca. E' un tipo di approccio complementare al live, e personalmente sono curioso di sperimentare anche nuovi arrangiamenti e sonorità. Per i concerti stiamo comunque continuando a suonare, per ora nell'ambito del nostro territorio: penso comunque che il disco potrà aprirci maggiori orizzonti in questo senso, rimane un biglietto da visita fondamentale anche in questi giorni di "volatilità" del supporto musicale e circolazione digitale della musica.