L'inetto è l'antieroe per antonomasia.
Una figura disadattata e fuori contesto, incapace di vivere pienamente, eppure protagonista. In un romanzo l'inetto catalizza la preoccupazione e l'empatia del lettore, pur restando incatenato a sè stesso e al suo immobilismo patologico. E nella presa di coscienza per cui non è egli stesso a non comprendere il reale, ma tutto ciò che esiste attorno a non saperlo valorizzare, sta la sua vittoria.
Il panorama artistico (letterario, musicale, cinematografico), pullula di personaggi al giorno d'oggi americanamente classificabili come losers, dal piglio intellettuale tanto brillante da far tralasciare la loro condizione sociale di eterni dimenticati: il ragazzino che suona nella banda della scuola, il genio in matematica, quello che al calcio preferisce i vinili. Quattro di questi straordinari esemplari di esseri umani si sono stagliati sul palco del Monk la sera di giovedì 17 settembre: i Parquet Courts, originari del Texas e trasferitisi a Brooklyn, sono all'attivo dal 2010 con una musicassetta autoprodotta, un EP (Tally All The Things That You Broke) e tre album (Light Up Gold, Sunbathing Animal e Content Nausea, quest'ultimo uscito a nome Parkay Quarts), che hanno assicurato loro l'apice del successo in una manciata d'anni.
La data capitolina ha riunito un consistente gruppo di appassionati di american punk e garage rock di età differenti (la fascia 20/25 ha lasciato spazio a una più numerosa, inaspettatamente, fazione di 45/50enni). Il live ha inizio alle 23 in punto – piuttosto in ritardo rispetto agli orari convenzionali- sulle note di No No No, che inducono i presenti ad affrettarsi nella sala concerti semi-piena.
I Parquet Courts rispecchiano appieno l'estetica degli antieroi descritti poco più sopra: il leader e cantante Andrew Savage è l'alter ego in carne ed ossa del Napoleon Dynamite protagonista dell'omonimo film. Al basso Sean Yeaton, munito di Peroni in lattina e t-shirt degli Infest, che la mia amorevole compagnia per il concerto mi informa essere una band hardcore statunitense, popolarissima negli anni Ottanta.
Max Savage alla batteria è l'elemento meno entusiasta del gruppo, piuttosto apatico per tutta la durata del live e ostile a sorridere persino quando gli altri membri annunciano che è il giorno del suo compleanno. Da ultimo, l'eclettico e bizzarro Austin Brown alla chitarra, talentuoso e di potente presenza scenica (alterna bevute di birra a bevute di vino, distorce i suoni poggiandosi la chitarra sulla testa e avvicinandola spesso agli amplificatori).
Il dato che caratterizza il quartetto è il seguente: dell'estetica di cui abbiamo detto sopra, a loro sembra interessare meno che a Max del suo compleanno. Rozzi, trascurati nell'aspetto, i Parquet Courts non dedicano alcuna attenzione alle apparenze e suonano come se si trovassero nello scantinato di un'abitazione, susseguendo i pezzi in una carrellata senza pause. Questo aspetto è tanto positivo nel confermare l'autenticità di una band che rispecchia quello che suona, quanto poco coinvolgente per il fatto che difficilmente si crea una vera connessione con il pubblico, cui vengono rivolte poche parole, per di più svogliate.
Altra nota dolente è l'acustica, con i volumi degli strumenti a sovrastare completamente quelli delle voci. I brani risultano quasi strumentali, come se dall'ugola di Andrew e Austin (nei cori) non pervenisse suono, cimentandosi in un playback muto. Le chitarre spiccano distintamente, graffiando come dovrebbero, ma non si può intonare alcuna lirica.
L'esecuzione della scaletta, qualitativamente, è impeccabile. Tutti i pezzi non vengono meno a come ce li si aspetta, dalle popolarissime Black And White e Sunbathing Animal, a Psycho Structures e Content Nausea. Master of My Craft e Borrowed Time, presentati in sequenza, pur rappresentando la deriva più punk del gruppo, non scatenano la rivolta e il pogo che ben si intonerebbero a quelle note, forse anche a causa di una platea abbastanza restia a scatenarsi, più incline a seguire il ritmo con la testa, fingendo di suonare la chitarra (ricordate la fascia di pubblico 45/50?).
Nessun bis concesso, agli ultimi brani segue il canonico ringraziamento finale e le frasi di rito sulla bellezza del pubblico + la bellezza dell'essere intervenuti. Nel complesso, il live non si può descrivere come deludente, grazie al fatto che i quattro sanno cosa fanno e sanno farlo in modo egregio. Indubbiamente, tuttavia, si sono esibiti più assolvendo al dovere di sostenere una data del tour, che divertendosi e lasciandosi coinvolgere, mantenendo il mood generale simile alla distruttività di una mina inesplosa.
Qui sotto potete vedere lo slideshow con tutte le e foto realizzate da Alessandro Del Gaudio, che trovate anche su Flickr e Facebook.