Al loro ottavo lavoro, Chino Moreno e compagni continuano l'evoluzione del loro alt-metal "mutante", tra testi misticheggianti e chitarre sempre piu' taglienti.7,5/10Uscita: 8 aprile 2016 Reprise Records Compralo su Amazon: Audio CD |
Gore è la chiusura e insieme l’apertura di un nuovo cerchio di sperimentazioni sonore da parte dei Deftones.
Più di vent’anni di onorata carriera nell’alternative metal non hanno reso meno energico, violento, spesso rabbioso, ma allo stesso tempo enigmatico, mistico e sognante il sound della band di Sacramento. Certo, Chino Moreno sembra ormai aver abbandonato da tempo la linea del cantato rap, tipico del primo album Adrenaline (1995), attraverso una linea musicale più melodica affermatasi a partire dal secondo album, Around the Fur (1997), passando per gli acclamatissimi White Pony (2000) e Diamond Eyes (2010), fino al punto di svolta finale con l'ultimo Koi No Yokan (2012). Probabilmente, c’è da pensare che la definizione di band alternative metal stia stretta ai cinque: già solo ascoltando in sequenza questi album, quello che si percepisce è la sensazione che di volta in volta s’aggiunga un suono nuovo, un aggettivo in più per definire una delle band fondamentali nel passaggio tra gli anni ’90 e 2000, per tutte quelle band, nonché quegli ascoltatori e/o appassionati che s’affacciavano al mondo alternative.
Con Gore abbiamo una versione 2.0 dei Deftones di Koi No Yokan: ritornano le stesse atmosfere mistiche di dannazione esistenziale, i testi enigmatici e la geometria, in un processo creativo che ha visto lavorare separatamente Chino Moreno e Stephen Carpenter, chitarrista della band, tra il 2014 ed il 2015. Mentre il primo era impegnato con il suo side-project Crosses, i restanti membri della band si sono infatti dedicati alla lavorazione del nuovo album, col risultato che in una prima fase i due hanno fatto fatica ad andare d'accordo, specie sulle tematiche decisamente introspettive proposte da Chino. A tal proposito, non è un caso che le chitarre e la voce siano in questo album le parti che più dialogano tra di loro o addirittura, in alcuni brani, si sfidano a colpi di voci distorte, voci che sembrano provenire da altri luoghi e atmosfere sognanti, o da incubo, dove i protagonisti dei brani assumono altre forme, confondendosi nella lotta tra bene e male in cui la loro coscienza è coinvolta.
Il titolo dell’album dice molto sulla tematica più diffusa all’interno dell’album, affrontata però in maniera quasi sotterranea. Il termine “gore” infatti, se da un lato significa sangue, inteso come sangue rappreso, in un’altra accezione significa invece tagliare in forma triangolare ed è proprio il triangolo la forma geometrica dominante nei testi del disco, nonché la geometria in generale, alla quale il cantante e autore dei testi sembra essere molto legato.
Questo lo vediamo in maniera evidente già a partire dalla prima traccia, Prayers/Triangles, primo singolo estratto. Due qui le presenze imponenti, forse addirittura le forze motrici dell’uomo, veri e propri pattern con cui la società influenza, nonché sottomette l’individuo: la religione, rappresentata metaforicamente dal termine “prayers”, gridato nel ritornello quasi come una richiesta d’aiuto, e la geometria, rappresentata questa volta dai “triangles” che appaiono come vere e proprie immagini salvifiche. C’è dunque una confusione circa il potere benefico o demoniaco di queste figure, una confusione che è filo conduttore dell’intero album.
In Acid Hologram si fa strada l’idea che vi sia davvero una forza, un’energia esterna come quella di un fantasma, o meglio un ologramma fatto di luce, in un sogno o in un incubo o come immagine scaturita dall’uso di acidi, da cui probabilmente il titolo del brano. Doomed User è invece il secondo singolo: un brano che potrebbe essere definito propriamente classic metal, con anche un cantato in scream nelle strofe. Rabbia è l’emozione chiave del pezzo, in un album in cui i sentimenti e le emozioni la fanno da padrone. Torna la geometria: in Geometric Headress, quarta traccia dell’album, troviamo il primo riferimento a un soggetto femminile, probabilmente destinatario della critica e delle parole di rabbia e sgomento di Moreno. Sono le parole qui, l’uso stesso del termine “words” a costituire la vera e propria geometria, il punto fermo del brano, con rime, assonanze, comunanze di suoni prodotti con le parole, quasi fosse una ballata recitata da un giullare di corte davanti a una dama prestigiosa.
Si arriva poi a Hearts/Wires, che al di là delle facili allusioni contenute nel titolo, si può definire il cuore di Gore. Traccia speculare a Prayers/Triangles, è il brano con l’intro strumentale più lungo di tutto l’album, quasi ideato per isolare il pezzo. È un brano sull’abbandono, meglio sulla dipendenza, probabilmente da una persona o, perché no, da una droga, come potrebbe dimostrare questo verso tratto dal testo: “A way, a way out/ A way, down deep into your veins”. Persona o droga che siano, quest’abbandono genera un vuoto confortante, suggerito dall’apparato strumentale del brano, che è il meno invasivo e più melodico tra quelli contenuti nel disco.
Pittura Infamante è il titolo più evocativo dell’album: si riferisce a una pittura tipica dell’Italia medievale e rinascimentale in cui si rappresentava, solitamente a testa in giù, un ladro, un traditore o in generale un colpevole di contumacia, sottoposto così ad una punizione di stampo sociale, nonché alla vergogna di essere esposto al pubblico ludibrio. Il soggetto di questo brano è infatti un peccatore, non è chiaro per quale motivo, forse un peccatore primordiale divenuto tale dopo aver assaggiato un certo frutto – con chiara allusione biblica. Nell’ultima parte del brano viene a crearsi una sorta di “meta-brano”, un brano all’interno del brano, con quella lotta a cui accennavamo più sopra tra le variazioni vocali di Chino Moreno e la chitarra di Stephen Carpenter.
Xenon prosegue il motivo geometrico: ritorna infatti la forma triangolare, questa volta nelle sembianze di un diamante. La geometria ha finalmente assunto pieno possesso del pensiero dell’io narrante, con il diamante addirittura incastrato nel cervello e che nel ritornello assume la voce di quella forza demoniaca che grida: “We’re the diamonds in your brain!”, minacciando la libertà dell’individuo.
Forse una rinascita quella contenuta nel successivo brano (L)MIRL, da compiere però nel mondo reale, nel mondo dei vivi – il titolo è in realtà un acronimo per “Let’s Meet In Real Life”. Il protagonista sembra assente, abituato all’assenza, descritto come uno spirito tra le onde. A seguire arriva la title track, dove più che l’accezione di triangolo qui vale quella di sangue come legame, forse di una setta, che unirà e porterà alla liberazione dalle gabbie in cui si è costretti, come Chino Moreno canta nel bridge: “We’ll slip right through these gates together someday”.
La penultima traccia di Gore vanta la presenza di un chitarrista d’eccezione che si può ascoltare nell’assolo, ovvero Jerry Cantrell degli Alice In Chains. Phantom Bride riprende le tematiche affrontate in Hearts/Wires: è una ballata con protagonista una donna, anzi una sposa fantasma che ha deciso di abbandonare le passioni della carne, per avvelenarsi del suo stesso vuoto, probabilmente prodotto anche in questo caso dall’uso/abuso di droghe. Quest’assenza di emozioni sembra comunque essere la sua salvezza dal dolore.
L’album si chiude infine con Rubicon, un’allusione alla storia romana e a Cesare. Forse anche per i Deftones il dado è tratto: ormai sono profonde le loro radici nel panorama alternative metal e sono pronti ad affrontare insieme le battaglie che incontreranno, per restarvi. L’ostacolo, il Rubicone, è ormai alle loro spalle.
Con il loro ottavo album in studio, i Deftones chiudono forse una fase, o perché no, un cerchio e allo stesso tempo ne aprono un altro. Chissà che con il loro prossimo album non assumano altre forme, anche geometriche, di sperimentazioni sonore, rinnovando e rimodernando di volta in volta il loro sound, per continuare a regnare sul panorama alternative metal.