Win Butler e compagni cambiano pelle e realizzano il loro disco piu' sperimentale, ballabile e moderno, sospinto da una creativita' inesauribile.9/10Uscita: 29 ottobre 2013 Merge Records Compralo su Amazon: Audio CD | Vinile |
Il quarto album degli Arcade Fire arriva alla fine di un’interminabile campagna promozionale che ha visto la band canadese stabilire probabilmente un nuovo modello di riferimento per quanto riguarda l'hype di un semplice prodotto musicale: tra misteriosi graffiti sui muri, bizzarre apparizioni televisive e una marea di teaser e trailer, Win Butler e compagni sono riusciti a battere addirittura i Daft Punk (responsabili dell’altra memorabile campagna marketing del 2013) nel gioco di mantenere i fan in costante attesa della prossima rivelazione, fino al giorno dell’uscita del disco. Tutta questa anticipazione, manco a dirlo, ha avuto un duplice effetto: se i fan di lungo corso e gli osservatori più superficiali delle mode musicali hanno rilanciato ogni minimo dettaglio sul disco, agendo praticamente da addetti stampa a costo zero per la band, una larga fetta di pubblico ha percepito distintamente un senso di repulsione nei confronti di un gruppo che (ricordiamolo) fin dall’inizio è sembrato sorgere dal nulla grazie ad una recensione su Pitchfork. Ecco così ritornare le vecchie definizioni che da anni perseguitano Win, Régine e gli altri: niente più di una hype band, i cocchi della stampa musicale, pretenziosi e intellettualoidi, ma incapaci di toccare il cuore degli ascoltatori. Ecco perché molti hanno semplicemente bypassato l’ascolto di questo Reflektor: del resto, una band che ricorre ad una simile campagna di marketing non può avere qualcosa di buono (e addirittura di innovativo) da dire, per giunta nello strabordante formato del doppio album (o, ancora peggio, doppio cd).
Un vero peccato, perché Reflektor segnala la prima grande svolta nella storia di una band che sembra finalmente in grado di superare tutti questi pregiudizi: affidandosi alla produzione dell’amico James Murphy, il combo canadese cambia pelle davanti ai nostri occhi, abbandonando quasi completamente l’immaginario gotico degli esordi o quello più tradizionale di The Suburbs, per proiettarsi finalmente nel futuro. Cosa significhi questo futuro ce lo spiega subito la title-track: ritmi ballabili, fiati e percussioni caraibiche, che differenza rispetto al buio di Neon Bible! Se a questo si aggiunge un James Murphy che tira a lucido ogni suono sintetizzando il meglio della musica dance degli ultimi quarant’anni (in modo simile a quanto fatto con i tre dischi degli LCD Soundsystem), e un cameo del redivivo David Bowie, il risultato è qualcosa di memorabile, in grado di farci dimenticare anche la lunghezza del brano, decisamente eccessiva per un singolo.
Reflektor è una vera dichiarazione d’intenti, a questo punto la strada è spianata: We Exist è retta da una bassline ballerina che ricorda Billie Jean di Michael Jackson, ma cresce piano piano fino ad esplodere in un finale che è uno dei momenti più memorabili del disco; Flashbulb Eyes invece mette in campo un’inedita influenza dub, tutta bassi e spazi vuoti, come a voler definitivamente zittire chi da sempre critica gli Arcade Fire perché troppo barocchi; infine Here Comes the Night Time chiude la prima sequenza dell’album con un memorabile ritornello sostenuto dalla marimba, che poi accelera fino ad un’improbabile atmosfera balcanico-circense che mai ci saremmo aspettata dai seriosi autori di The Suburbs.
Impossibile a questo punto non notare il divertimento che sembra scorrere nelle vene di questa prima parte del disco: come nella tradizione dei migliori album doppi, Reflektor è una celebrazione delle potenzialità della musica, che sovrappone idee buone e meno buone con spirito gioiosamente infantile. Murphy e la band sembrano sperimentare tutto quello che passa per la loro testa, alla ricerca di inedite contaminazioni: quanto di più lontano dalle noiosità trad-folk che occupavano la parte centrale di The Suburbs. Spesso e volentieri i brani sono collegati da frammenti di annunci radiofonici e finte intro, come quella che ascoltiamo all’inizio del quinto pezzo Normal Person: “Do you like rock music?” – biascica un Win Butler sempre più gigione, accompagnato da un’intro quasi rollingstoneiana – “’Cause I don’t know if I do”, prima che esplodano le chitarre in quello che è sicuramente il pezzo più tradizionale del disco. A seguire troviamo l’allegra You Already Know (probabilmente il brano meno interessante, ma assolutamente irresistibile con il suo ritmo saltellante e il ritornello squisitamente pop), e, sul finale del primo disco, la lunga Joan of Arc. Anche qui la contaminazione sonora regna sovrana: si parte con l’accenno di un ritmo punk, poi quasi immediatamente si ripiega su un mid-tempo dedicato all’eroina medievale, che dà modo a Régine Chassagne di cimentarsi in un monologo in francese. Un brano epico, l’ideale da cantare in coro ad uno dei prossimi concerti, mettendo definitivamente in soffitta la vecchia e gloriosa Wake Up.
Fin dall’inizio capiamo invece che il secondo disco sarà più riflessivo e sentito: la ripresa di Here Comes the Night Time mette da parte l’allegra esuberanza della prima parte, in poco meno di tre minuti che sembrano quasi un cambio di palcoscenico, mentre le luci si abbassano e si prepara un’atmosfera più sommessa. La vediamo subito all’opera nei due brani gemelli successivi, Awful Sound e It’s Never Over, dedicati alle figure di Orfeo e Euridice che campeggiano sulla copertina dell’album. Il primo brano si regge su una pigra linea di basso, prima di sbocciare letteralmente in un’esplosione caleidoscopica di voci e armonie, con un effetto vagamente beatlesiano; il secondo invece vede la band ritornare ai ritmi ballabili, ma con sonorità molto più cupe, come se le luci colorate del dancefloor di Here Comes the Night Time fossero ora in bianco e nero. In generale ci troviamo di fronte alla parte meno accessibile dell’LP: i due brani totalizzano 13 minuti non immediatamente soddisfacenti , ma che con ripetuti ascolti rivelano la loro natura di cuore concettuale dell’intero lavoro; come a dire, nonostante l’enfasi su ballo e divertimento, siamo pur sempre gli Arcade Fire di Funeral, e non abbiamo rinunciato del tutto al lato più concettuale e artistico della nostra musica.
Da qui in avanti il percorso è di nuovo in discesa: l’electro-pop di Porno ci guida in atmosfere gelide alla Depeche Mode, che ripuliscono la percezione dell’ascoltatore prima dell’ennesimo pezzo da novanta. Già dalle prime performance televisive, Afterlife si era infatti segnalata come il vero highlight del disco, un penultimo brano in grado di non sfigurare rispetto agli illustri precedenti (Rebellion (Lies) su Funeral, No Cars Go su Neon Bible e Sprawl II su The Suburbs): niente di meglio di tornare sulla pista da ballo per quest’ultima catarsi, mentre Win ci rivolge domande importanti (“Quando l’amore sparisce, dove va a finire? E dove andiamo a finire noi?”) e si parla senza troppe esitazioni di un aldilà che per un attimo sembra veramente un inizio, più che una fine. Un brano splendido e commovente, che inevitabilmente riduce al ruolo di appendice la chiusura sussurrata di Supersymmetry, che sfuma in un’atmosfera acquatica e rarefatta gli ultimi ricordi di quello che è venuto prima.
Una volta finito questo lungo viaggio, la sensazione è quella di aver ascoltato qualcosa di sempre più raro: un disco corposo, sentito, coraggioso, non privo di difetti ma capace di superarli brillantemente grazie alla sua creatività strabordante. In poche parole proprio quello che serviva per rivitalizzare la carriera di una band che sembrava ormai troppo grande per non poter rivolgersi al mainstream, ma non abbastanza memorabile per poter essere apprezzata dal grande pubblico (ricordate i tweet terrorizzati “ma chi sono questi The Suburbs?” quando vinsero il Grammy come miglior album?). Quello che è certo è che Win Butler ce la sta mettendo tutta per cancellare la sua immagine da ragazzone acqua e sapone della fattoria a fianco, e diventare una vera popstar. Reflektor è il suo biglietto da visita per sedersi finalmente al tavolo dei grandi, ma le regole, se non l’avete ancora capito, ha intenzione di scriverle lui.