L'artista islandese mette a nudo il suo cuore dopo la dolorosa separazione da Matthew Barney, in un disco dall'intensita' prodigiosa, tra archi e elettronica minimale.8/10Uscita: 20 gennaio 2015 One Little Indian Compralo su Amazon: Audio CD |
Uscita sul web inaspettata (e sicuramente non del tutto voluta), quella di Vulnicura, nono album in studio di Björk Gudmundsdottir, meglio conosciuta come Björk.
Con questo nuovo lavoro viene tralasciata la ricerca di suoni inusuali e l'invenzione di nuovi strumenti che avevano contraddistinto il precedente Biophilia (2011), e non troviamo neanche i tanti vocalizzi ai quali ci ha da sempre abituato la cantautrice islandese. Ma tutto normale non poteva certo essere, non sarebbe stato nel suo stile: ecco allora che notiamo come la durata media delle canzoni sia notevolmente alta, tutte oltre i 6 minuti, tranne due; notiamo la costante presenza di archi, che sembrano aiutare lei e noi, non più a compiere viaggi esplorativi di mondi fantastici, universi paralleli e galassie sconosciute, ma a compiere un viaggio introspettivo: il dolore e la felicità, la pesantezza della vita e subito dopo la sua accessibile leggerezza.
Sorge quindi spontanea una domanda: perché questo cambiamento? Partiamo dall’inizio: Stonemilker è la traccia apripista dell’album, è il momento in cui ti stai mettendo a sedere e cerchi di trovare la giusta posizione per interpretare al meglio l’album, che sai già non sarà di facile ascolto. Stupito però, senti che tutto è diverso: sono gli archi a intonare la prima melodia del CD e la voce di Björk è molto delicata, recita una poesia, una poesia d’amore. Finisce la prima canzone, attendi impaziente di sentire l’evoluzione della seconda traccia, e invece no, sembra quasi il continuo della prima. Finisce anche Lionsong e comincia History Of Touches: con questa canzone incominci a sentire qualche beat più forte, incominci a ricordarti della Björk che hai conosciuto e apprezzato in passato. Ma tutto si perde con la traccia successiva (Black Lake), dove torna questa forte sensazione di malinconia e tristezza, ed è così che funzionerà fino alla fine dell’album.
Questa volta la diva islandese parla di un amore finito, di rabbia, di dolore e di passione. Viene quasi spontaneo concentrarci sui testi, non essendo abituati a certe sonorità, e ci accorgiamo che non sono semplici canzoni, ma raccontano una storia, la storia della cantante stessa e della sua dolorosa separazione dal marito Matthew Barney, di come ha affrontato e affronta questa prova, di come cerca di superarla. Lo fa senza giri di parole, come ha detto lei stessa in un intervista: “Non ho mai cantato testi così diretti, semplici.” Per la prima volta nella sua lunga carriera Björk vuole rendere pubblico ciò che prova in tutte le canzoni, ma è soprattutto in Black Lake, appunto la quarta canzone, la più lunga, la più difficile da ascoltare (per noi) e da cantare (per lei), che si immerge completamente nella debolezza che la attanaglia. Questo non vuol dire che gli altri testi siano più allegri, o più ritmati: i fan della Björk più danzereccia e spiritosa possono pure cercare altrove, questo non succede in Vulnicura, questo non è un disco “allegro”.
Ad accompagnarla c’è il produttore venezuelano Arca (sulla cresta dell'onda per le sue collaborazioni con Kanye West e FKA Twigs, oltre che per il suo album solista dell'anno scorso, Xen) e Bobby Krlic, ovvero il musicista e producer The Haxan Cloak; tre teste che creano un sound inusuale, ricco di trasformazioni curate nei minimi dettagli, mischiando elettronica e classica, e costruendo con precisione il mondo dove le parole di Björk decidono di condurci.
L’unico modo per la nostra eroina di uscire dal malessere è la musica, per fortuna sua e nostra. Ce lo fa capire in Quicksand, che è l’ultimo brano, l’unico davvero ritmato dell’album. Un finale che ha tutta l'aria di una presa di consapevolezza dopo lo smarrimento messo in scena nei cinquanta e passa minuti precedenti: "When I'm broken I am whole And when I'm whole I'm broken" canta con rinnovata convinzione, fino a reagire definitivamente e confrontarsi direttamente col fantasma ormai evaporato di Barney (o sta parlando con sé stessa allo specchio?), accusandolo così "Every time you give up/You take away our future/And my continuity and my daughter's/And her daughters/And her daughters".
E sembra proprio la famiglia l'elemento in grado di far uscire l'artista islandese dall'impasse emozionale che la attanaglia: la consapevolezza del ruolo ora ancora più fondamentale che svolge nella vita di sua figlia la aiuta ad allontanarsi definitivamente dall'abisso della disperazione, fino alla rinascita evocata dal finale del recente video Family. Quicksand chiude l'album più cupo e disperato della sua carriera su una nota di speranza: non è propriamente un lieto fine, ma una prima reazione all'oscurità dell'abbandono, che ci fa ben sperare e sembra quasi dirci “To be continued…”.