Il frontman dei Girls torna con un concept album solista: sparisce la profondita' e il gusto per gli arrangiamenti del duo californiano, ma non mancano le belle canzoni.
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Nel 2011 Gold Soundz non esisteva ancora, ma se ci fossimo stati il secondo album dei Girls (Father, Son, Holy Ghost) sarebbe sicuramente finito in cima alla nostra classifica di fine anno (clicca qui per vedere quella del 2012). A coronamento di un’entusiasmante evoluzione che li aveva visti in soli due anni mettere le basi con un solido esordio e poi sfornare quel gioiello di EP chiamato Broken Dreams Club, Christopher Owens e Chet “JR” White avevano realizzato undici canzoni fuori dal tempo e commoventi, ammantate da quella patina “classica” che può solo risultare da tanto genuino amore per la musica rock degli ultimi sessant'anni. Da quel punto in poi la strada per i due di San Francisco sembrava spianata, peccato solo che poi le cose abbiano preso un’altra piega: preoccupato per il successo troppo veloce ed improvviso della band, ad inizio luglio Christopher ha annunciato la sua uscita dalla band, mettendo in sostanza fine al gruppo. “Ho bisogno di farlo per progredire”, dichiarava nel breve messaggio di spiegazioni indirizzato ai fan, lasciando intendere di voler continuare con una carriera solista.
Così quando a fine ottobre il frontman ha annunciato l’uscita del suo esordio solista Lysandre, le aspettative sono subito schizzate alle stelle: un intero album dedicato alla sua storia d'amore con una ragazza francese conosciuta in tour sembrava la prospettiva ideale per far germogliare il suo talento, anche senza gli arrangiamenti di White. Quello che però nessuno poteva calcolare è che forse era proprio l’unione tra questi due personaggi apparentemente così diversi (il “bohemien” Owens e il “professionista” White) a dare profondità al suono dei Girls. Come risultato Lysandre si presenta da subito come la raccolta di canzoni più unidimensionale registrata finora da Owens: senza l’aiuto di White, Owens sceglie di seguire la strada del cantautorato acustico più classico, facendosi accompagnare da una piccola band nella quale spiccano sassofono e flauto.
Quello che ne risulta è il classico “lavoro minore”, che potrebbe andare benissimo se i Girls fossero ancora in attività e questo fosse lo sfogo di un frontman che non riesce ad imporre le sue idee nel gruppo principale, ma risulta inevitabilmente una mezza delusione se si considera tutta l’attesa che l’ha circondato. In mezz’ora scarsa Owens ci accompagna attraverso tutte le emozioni di una storia d’amore: dalla felicità (New York City, uno dei brani più movimentati) all’abbandono e alla disillusione finale (“You’re a part of me, that part of me is gone”, canta sul finale), dichiarando da subito la natura concept del disco con la ripetizione dell’iniziale motivetto Lysandre’s Theme in quasi tutti i brani. In mezzo ci sono momenti decisamente coinvolgenti (le quasi omonime Here We Go e Here We Go Again) e commoventi (le soffici ballate Love Is In The Ear of the Listener e A Broken Heart), ma anche cadute di stile (l’inutile e interminabile intermezzo reggae Riviera Rock, il sassofono invadente che disturba New York City). Owens conferma il suo talento nel creare un’atmosfera intima che mette a suo agio l’ascoltatore, ma senza gli arrangiamenti inventivi di White il tutto rimane molto più superficiale, e per quanto non manchino le belle canzoni, sono poche quelle che spiccano.
Tra queste le migliori rimangono la già citata Love Is in the Ear of the Listener, così come la chiusura Part of Me (Lysandre’s Epilogue), che rinforzano il suono quel tanto che basta per non farle sembrare dei bozzetti incompiuti (come succede invece su Everywhere You Knew e A Broken Heart). In particolare il brano finale introduce inediti accenti country che mi fanno pensare a come potrebbe suonare Conor Oberst se non avesse smarrito la retta via nella sua carriera solista, e che portano il disco a chiudersi nel migliore dei modi.
In definitiva ci si poteva probabilmente aspettare di più da questo lavoro, ma è difficile non ammettere che, anche nei momenti in cui sembra inserire il pilota automatico (e ce ne sono tanti in questo album) Owens continua a produrre melodie molto più interessanti degli altri cantautori in circolazione. Vale il discorso già fatto prima: se consideriamo questo lavoro non come il seguito dell’esperienza dei Girls, ma come un semplice album solista del loro frontman, l’intera ambizione del disco viene ridimensionata e appaiono più accettabili la scarsa durata e i tanti riempitivi inseriti qui e là (la ripetizione del tema principale, gli effetti sonori alla Pink Floyd che occupano buona parte di Here We Go Again). Da parte nostra, prendiamo questo debutto come una prova generale che lo allontana definitivamente dall’esperienza della sua band precedente e aspettiamo il vero esordio, sperando che ci sia più sostanza e meno divertissement.