Seconda parte della nostra classifica 2014: qui sotto trovate le posizioni dalla 19 alla 1 dei nostri dischi preferiti usciti in questi dodici mesi. Qui invece trovate le posizioni dalla 20 alla 40!
E per assicurarsi un anno nuovo accompagnato da tutti i nostri artisti preferiti, non dimenticate di dare un'occhiata al nostro Calendario 2015!
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19. Parquet Courts – Sunbathing Animal
I "nuovi Pavement" di Light Up Gold sono cresciuti e hanno realizzato un seguito molto più coeso e maturo: tra le solite sferzate punk entrano in gioco brani molto più lunghi e atmosferici (Instant Disassembly su tutti) che rendono l'ascolto più vario e piacevole. Ma i ragazzi sono ancora giovani, e chissà cosa potranno combinare con i prossimi lavori…
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18. The Afghan Whigs – Do to the Beast
Quello che poteva essere un mezzo disastro (l'ultimo album dei Whigs è uscito sedici anni fa e la formazione da allora è quasi completamente cambiata) si è rivelato invece una piacevole aggiunta alla discografia della band di Cincinnati: con le mani libere Greg Dulli sembra cedere alla tentazione di realizzare il migliore album dei Twilight Singers della sua carriera, ma è ammirevole la sua capacità di riuscire ancora ad evocare le stesse atmosfere noir e malate di Black Love. Difficile paragonarlo alla produzione precedente degli Afghan Whigs, ma è un disco che cresce ad ogni ascolto, dategli una chance!
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17. Lykke Li – I Never Learn
Per il suo "difficile terzo album" la cantautrice svedese volta le spalle al successo di I Follow Rivers e realizza un album quasi interamente composto da sontuose ballate, all'insegna di una dolorosa introspezione. A partire dal titolo ("Non imparo mai"), I Never Learn dà la sensazione di essere più una seduta dallo psicoanalista in una lussuosa confezione pop che un album, segnato da strazianti richieste d'aiuto (Love Me Like I'm not Made of Stone) e dall'istinto pop che nonostante tutto continua a produrre singoli memorabili (No Rest for the Wicked).
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16. Perfume Genius – Too Bright
Mike Hadreas torna con il suo album più sicuro e completo: con l'aiuto di Adrian Utley dei Portishead e di John Parish, Too Bright è un disco che parla di fare a pezzi le proprie illusioni, affrontare i propri nemici e venirne fuori vincitore. Insomma, quello che si può definire un'ispirazione, e non è poco per un prodotto musicale nel 2014.
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15. Ex Hex – Rips
La rivincita delle ragazze: dopo lo scioglimento delle Wild Flag e in attesa della reunion delle Sleater-Kinney, l'outsider Mary Timony torna con un power trio tutto divertimento, ritmo e grandi canzoni. Un momento di gloria che meritava da tanti anni, e siamo proprio contenti che sia questo l'anno in cui tutti si sono accorti di lei!
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14. Sharon Van Etten – Are We There
Come parlare dei propri sentimenti nell'era social? La cantautrice del New Jersey al quarto album trova la quadratura del cerchio e realizza una serie di vignette sull'amore in disfacimento, indispensabili per affrontare il freddo dell'inverno.
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13. Beck – Morning Phase
Per il suo ritorno sulle scene dopo sei anni di silenzio (o quasi) l'ex Loser ha tirato fuori la sua indole più autunnale e malinconica, sfornando una serie di ballate acustiche illuminate dalla luce del mattino. Attenzione però: ad un ascolto attento una sottile inquietudine si fa largo tra le superfici illuminate, regalando spessore a un disco piacevole dall'inizio alla fine. Non male continuare a fare dischi del genere dopo vent'anni di carriera! RECENSIONE
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12. Real Estate – Atlas
Al terzo album la band del New Jersey raffina ulteriormente le sue chitarre scintillanti, mentre la poetica dei testi si fa sempre più adulta e riflessiva. Insieme al disco di Beck, la nostra scelta come album più solare dell'anno, tutto atmosfere ariose e tranquille schitarrate: a volte ci vogliono anche dischi così! RECENSIONE
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11. Ariel Pink – pom pom
In un anno che l'ha visto assumere meritatamente il titolo di re dei troll (è riuscito a far arrabbiare praticamente chiunque, da Grimes a Madonna), Ariel è tornato con il suo album più caleidoscopico e folle: un lunghissimo viaggio tra stili musicali differenti, attraversato sempre da un'ironia zappiana e dal tentativo di rivalutare tutto il rivalutabile (heavy metal, pubblicità, sigle dei cartoni animati, tastieroni anni '80): l'esperimento è pienamente riuscito e da pom pom si esce sazi e vagamente nauseati, ma è proprio questo il punto dell'intera proposta artistica del genietto losangelino. RECENSIONE
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10. St. Vincent – St. Vincent
Ogni nuovo disco di Annie Clark è destinato ad essere amato dalla critica, ma il suo quarto album l'ha vista finalmente uscire dal ruolo di cantautrice-un-po'-matta per rivelare tutte le sue ambizioni: a partire dalla copertina si tratta di un disco senza compromessi, fatto apposta per mettere in luce il suo enorme talento. Inutile dire che anche questa volta è riuscita a conquistarci, oltretutto espandendo sempre di più la sua fanbase. RECENSIONE
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9. Todd Terje – It's Album Time
Il volto ironico e divertente della musica dance: con il suo album d'esordio il producer norvegese riesce a non farci rimpiangere il declino dei Röyksopp, combinando in un'unica release i fantastici singoli pubblicati fino ad ora, e aggiungendo qualche intermezzo sempre valido. E' il classico album che è in grado di farti sorridere e ballare anche nei momenti peggiori, e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno!
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8. Spoon – They Want My Soul
Ormai lo si dice da tanti anni: Britt Daniel e compagni non riuscirebbero a sbagliare un disco neanche se volessero, e They Want My Soul non fa eccezione: l'introduzione di un suono mai così curato e delle sinuose tastiere di Alex Fischel rende l'album una vera gioia per le orecchie dall'inizio alla fine, con un songwriting come al solito a livelli altissimi. Dal rock di Rent I Pay all'introspezione di Inside Out, passando per il romanticismo di New York Kiss, la rabbia della title-track e la nostalgia retrò di I Just Don't Understand: il nuovo disco degli Spoon ha veramente mille sapori, e la cosa bella è che sono tutti fantastici! RECENSIONE
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7. EMA – The Future's Void
Il premio per miglior concept album dell'anno va sicuramente alla signorina Erika M. Anderson, che ha realizzato la colonna sonora per le nostre paranoie da complotto: esplorando gli inquietanti legami tra sorveglianza, tecnologia e violazioni della privacy, The Future's Void apre una serie di domande a cui non è facile dare risposta, e si presenta come uno degli album più moderni e necessari di quest'anno.
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6. Caribou – Our Love
Erano in molti ad attendere Dan Snaith al varco, autore negli ultimi dieci anni di una crescita qualitativa impressionante con il suo progetto Caribou: ma dove poteva andare dopo lo stellare Swim (2010)? La risposta è stato il più classico dei passi laterali: un recupero delle sonorità dance del progetto Daphni e una minore enfasi sugli strumenti "suonati", accompagnati però da un'inedita profondità tematica. Our Love è l'unico modo possibile di parlare d'amore senza essere zuccherevoli: una celebrazione del sentimento più abusato e indescrivibile, attraverso tutte le sue fasi piacevoli e meno piacevoli. Insomma, grazie a questo disco abbiamo scoperto che Dan Snaith, in fondo, è un gran romanticone!
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5. Damon Albarn – Everyday Robots
Il frontman dei Blur ha fatto le cose in grande stile per il suo esordio solista: una collezione di brani malinconici, minimali e introspettivi il giusto, che suonano come la versione adulta e pacata delle migliori melodie della band. La capacità innata della voce di Albarn di emozionare senza calcare mai la mano viene utilizzata nel modo migliore, per guidare gli arrangiamenti scarni, in odore di elettronica ma saldamente ancorati alla canzone pop. Insomma, un disco solista da cui Thom Yorke avrebbe parecchio da imparare! RECENSIONE
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4. Iceage – Plowing into the Field of Love
L'album più intenso e feroce dell'anno. Era difficile pensare che i quattro giovani danesi riuscissero a ripetere l'expoit di You're Nothing, ma Plowing lo supera sotto ogni punto di vista, rendendo sempre più espliciti i paragoni con Nick Cave e i suoi Birthday Party: la stessa capacità di sublimare i sentimenti umani più cupi e contraddittori, la stessa fascinazione per l'oscurità e la stessa capacità di trovare la bellezza dove meno te l'aspetteresti. Plowing è semplicemente un disco magnificamente denso, che ti prende e non ti molla mai, fino alla fine, 47 minuti dopo. RECENSIONE
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3. Swans – To Be Kind
L'ennesimo disco-mammuth di Michael Gira e compagni è composto da oltre due ore di musica tremenda e magnifica, un attacco sonoro che non ha eguali e se ne frega bellamente della capacità dell'ascoltatore di recepire e processare una tale mole di suono in un'unica seduta. E forse è meglio così: se non ci si fa intimidire dalla sua facciata monolitica, To Be Kind rivela una serie di finezze e dettagli veramente unici, che vanno dal brano minimale per sola voce, chitarra e archi (Some Things We Do) all'apocalisse sonica di Bring the Sun/Toussaint L'Ourverture, 34 minuti che non possono essere paragonati a nient'altro. A sessant'anni suonati, Gira dimostra di avere ancora moltissimo da dire, e di riuscire a dirlo meglio che mai, grazie a un'inesauribile capacità di rinnovarsi e a una convinzione veramente invidiabile. RECENSIONE
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2. Sun Kil Moon – Benji
Chi l'avrebbe detto che il 2014 sarebbe stato l'anno di Mark Kozelek? Il veterano cantautore dell'Ohio aveva dato qualche avvisaglia nel 2013, con le convincenti collaborazioni con Desertshore e The Album Leaf, ma Benji l'ha catapultato di nuovo sulla bocca di tutti, a vent'anni dal culmine dell'avventura Red House Painters. Con questo lavoro di rara intensità lirica, Kozelek rende omaggio ad una serie di personaggi che hanno attraversato la sua vita, con lo spettro della morte sempre in agguato, confessandosi completamente e senza alcun tipo di filtro. Un emozionante viaggio tra autobiografia e cronaca, semplice e conciso dal punto di vista musicale, ma con moltitudini di vite che sembrano passare attraverso le sue note. RECENSIONE
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1. The War On Drugs – Lost in the Dream
Nonostante gli attacchi di Mark Kozelek non siano completamente privi di fondamento (sì, in alcuni punti sembra di ascoltare i Dire Straits o i Grateful Dead), Adam Granduciel ha realizzato quello che è indubbiamente il miglior disco dell'anno: Lost in the Dream riesce a immergerci fin dai primi secondi in un'atmosfera onirica, ma sorretta da una solida base classic rock. La voce alla Dylan del frontman, la precisione dei suoni e degli arrangiamenti, gli intermezzi strumentali e la benedizione dell'ex componente Kurt Vile (il cui fantasma si scorge distintamente sui brani più lunghi e ripetitivi) concorrono a creare 60 minuti di bellezza assoluta. Un disco emozionante, che incorona un nuovo grande autore di canzoni: ci spiace per Koz, ma questa volta la sua sempre essere tutta invidia…
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