Sufjan Stevens – Carrie & Lowell (Recensione)

Sufjan Stevens – Carrie & Lowell (Recensione)

2017-11-08T17:15:45+00:002 Luglio 2015|


Sufjan Stevens Carrie & Lowell
Il cantautore del Michigan mette da parte stravaganze e sperimentazioni per realizzare la sua opera piu' minimale e sentita: uno struggente addio all'infanzia e ai suoi affetti familiari piu' cari.

8/10


Uscita: 27 marzo 2015
Asthmatic Kitty Records
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Un Sufjan Stevens in parte inedito è quello che emerge dal suo ultimo lavoro Carrie & Lowell, uscito a quasi cinque anni dal precedente The Age of Adz. Questa volta niente deliri sperimentali ed eclettici, ma semplificazione e introspezione (Death with Dignity), arrangiamenti minimali (Should Have Known Better) e armonie acustiche sussurrate (All of Me Wants All of You), che mettono in evidenza un songwriting scarno ed etereo, il cui unico possibile precedente è da rintracciare nell'album Seven Swans (2004).

Una chitarra acustica come tappeto sonoro accennato fa da sfondo ad aliti di alt-folk con contorni lirici: siamo appena alla quarta traccia del disco (Drawn to the Blood) ed è già catarsi. Eugene invece con il suo fingerpicking richiama lavori passati, anche se resta essenziale a suggellare il leit-motiv dell’intero lavoro. Tutto questo intimismo altro non è che la trasmissione stilistica dei sentimenti che hanno guidato l'artista del Michigan nella realizzazione di questo lavoro, come dichiarato programmaticamente dal titolo: i Carrie e Lowell che campeggiano sulla copertina sono rispettivamente madre e patrigno del musicista, una madre scomparsa recentemente con la quale Sufjan non aveva mai del tutto riallacciato i rapporti dopo essere stato abbandonato quando era ancora bambino, e l'uomo che le stava al fianco, la figura "più vicina a un padre" che Sufjan abbia mai avuto, per sua stessa ammissione.

Carrie & Lowell nasce così dal ricordo dolcissimo e struggente di una manciata di estati trascorse da Sufjan e dai suoi fratelli insieme alla coppia, tanti anni fa. Fourth of July e The Only Thing fanno scorrere l’album dei ricordi, foto ingiallite non sbiadiscono il dolore della perdita, né cicatrizzano la ferita. Lievi arpeggi si rincorrono, la voce diventa malinconica, i suoni rarefatti ed è un lento scrutare nella memoria di un Sufjan mai così introspettivo, che si interroga sui suoi affetti.

Qualche barlume di speranza fa capolino in John My Beloved: piano in loop, suoni caldi e desiderio di andare avanti perché nella vita funziona così, non si può restare troppo a lungo con i pensieri rivolti al passato. L’epitaffio al disco è invece una sorta di gospel lisergico (Blue Bucket of Gold), per certi tratti spaziale, che evidenza lo smarrimento dell’autore mentre cerca di affrontare i suoi demoni.

Carrie & Lowell ci dona così una nuova dimensione di Sufjan Stevens, cantautore dai mille e poliedrici volti musicali, passato dal tentare di percorrere un ideale tour degli Stati Uniti attraverso 50 album al rideclinare il pop orchestrale nell'ultimo lavoro di cinque anni fa. In questo episodio la verve creativa è la stessa del memorabile Illinois, ma l’ambientazione è agli antipodi: siamo in presenza di una persona che si guarda allo specchio e rivela la sua anima, una carezza sincera che non lascia adito a stravaganze o barocche orchestrazioni. Quello che resta è la messa a fuoco di un uomo e dei suoi pensieri nostalgici e dolorosi, in un disco che non può lasciare indifferenti.